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Le distanze della preghiera

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Introduzione alla lectio divina su Lc 18, 9-14

XXX domenica del tempo ordinario – 27 ottobre 2013 

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.

 

  

The Pharisee and the Publican, Sir John Everett Millais, Bt (18291896), engraved by the Dalziel Brothers,  1864, Collection Tate, London

Sir 35, 21-22

La preghiera del povero attraversa le nubi

né si quieta finché non sia arrivata;

non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto

e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.

 

Si può pregare e mentire a Dio. Si può pregare e mentire a se stessi. Si può entrare in un tempio, in una chiesa, con atteggiamento pio e devoto, con le migliori intenzioni, eppure non trovare alcuna grazia presso Dio.

Ancora una volta il tema della preghiera è il filo rosso della meditazione evangelica della domenica. Il brano di Luca, ben noto, presenta due diverse figure di oranti: da un lato, il fariseo, modello allora in voga di uomo zelante verso la Legge e le pratiche cultuali; dall’altro, il pubblicano, additato al tempo quale esempio di vita disonesta e peccaminosa.   

La parabola raccontata da Gesù presenta destinatari ben precisi che Luca individua in tutti coloro i quali sono convinti in se stessi di essere giusti e che, pertanto, confidano in sé e nella propria buona condotta (il verbo greco può significare essere convinti, ma anche confidare).

Ecco allora due uomini salire al tempio per pregare. Ad un primo sguardo, non sembrano molto diversi, ma in realtà tra le due preghiere corre una grande differenza.

Il fariseo sta ritto davanti a Dio e la sua orazione, mormorata tra sé e sé, comincia nella forma convenzionale del ringraziamento a Dio:  «Oh Dio ti ringrazio». Un esordio esemplare, da manuale del buon orante, si direbbe, se non fosse che lo spazio per Dio è tutto e soltanto qui, in questa formuletta rituale che serve solo per introdurre se stessi e le proprie buone opere agli occhi del Creatore. Il fariseo sta tracciando con la sua preghiera un cerchio che parte dal ringraziamento e ritorna a sé.

Il fariseo, infatti, ringrazia Dio di essere un giusto, di osservare le prescrizioni del digiuno e della decima da pagare, ma soprattutto lo ringrazia di “non essere come gli altri”, uomini, ladri e adulteri, di “non essere come il pubblicano che gli sta accanto”. Insomma, il fariseo, che già nella sua probabile etimologia significa ‘il separato’ da ogni cosa impura (in ebraico, perushim), invoca Dio come spettatore di una rassegna di virtù e buone azioni. La sua vita somiglia ad una meravigliosa parata, uno spettacolo di santità, cui Dio è invitato ad assistere e, magari, a ricompensare. La composta preghiera del fariseo è tutto tranne che una preghiera a Dio. Non è un dialogo tra un Io, l’uomo, e un Tu, Dio, ma è piuttosto uno specchio ingannevole che riflette solo se stesso: sia dall’una, che dall’altra parte del canale comunicativo, c’è solo un ‘Io’, il medesimo ‘Io’, quello del fariseo nel brano di Luca, quello di chiunque sta pregando come lui. L’attenzione dell’orante è rivolta alla contemplazione del proprio volto, magari davanti a Dio. Un bel riflettore puntato su di sé.

Quest’uomo mette davanti a Dio la sua serietà, la sua coerenza, le sue opere perfettamente rispettose della vera legge, ma dov’è il suo cuore? Dove il suo mondo interiore?

Il fariseo non si accontenta, però, di trovarsi di fronte ad un Dio che lo ammira e approva nella sua perfezione, ma vuole anche essere messo a confronto con gli altri uomini, a partire da quelli che gli stanno accanto. Ecco allora che, sotto lo sguardo di Dio, il fariseo non si limita a mettere se stesso su un piedistallo, ma pone un piano più giù anche tutti gli altri, tutti i diversi da lui, tutti i peccatori, come il pubblicano che gli sta vicino, quell’occasionale compagno di preghiera. Ad essere invocato è, insomma, un giusto giudizio divino, il compiaciuto riconoscimento delle differenze e dei meriti di ognuno, la distinzione tra gli uomini giusti e quelli peccatori, senza curarsi troppo che tale distinzione finisca con l’esaltare i primi e mortificare gli ultimi.

L’affanno del fariseo sembra unicamente quello di colmare (anche topograficamente nella disposizione dell’assemblea) la distanza verso Dio ed approfondire invece la distanza, non solo dal peccato, ma anche dal peccatore, facendo forse leva sulla convinzione – assai diffusa e non sempre vera – che il peccato ci condanna ad una distanza incolmabile con Dio e con i fratelli.

Una idea che con questo brano Gesù rimette prepotentemente in discussione. Il Figlio dell’Uomo mangia con i pubblicani e le prostitute, si fa toccare il mantello dai lebbrosi e dalle donne impure e, invece, si mostra duro proprio con i farisei, ai quali lancia non poche invettive, chiamandoli ipocriti (Mt 23,13 ss), vipere (Mt 12,34), sepolcri imbiancati (Mt 23,27). Beninteso, questa idea è propria anche del pubblicano. Questi non ha alcunché da presentare a Dio, nessun merito o azione degna di nota; il pubblicano è consapevole di essere responsabile – e al contempo vittima – di una reale distanza tra sé e Dio. Egli cerca, di conseguenza, gli ultimi posti, un posto per pregare nascosto dietro una colonna, come nella immagine di sopra, senza comunque andare via, senza uscire dall’assemblea. Il pubblicano non vuole rinunciare a stare al cospetto di Dio e non riesce a smettere di invocare la azione salvifica del Padre: “Oh Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Ecco, la liturgia perfetta, ecco l’essenziale che mancava al fariseo. La prima mancanza è quella di un autentico Tu da dare a Dio, che non è il destinatario di una formula vuota, ma è davvero l’Altro, il Signore che mi ama e mi salva. La seconda è la implorazione di un uomo che non osa neppure alzare gli occhi, la consapevolezza del bisogno disperato di essere salvati.

Dice bene André Louf, quando ricorda che “Chi conosce il proprio peccato conosce nel contempo anche Dio perché fa esperienza della sua misericordia. È nel pentimento e nella conversione che si può incontrare Dio in verità e conoscerlo perché Dio si fa conoscere perdonando e il peccatore, scrutando l’abisso del proprio peccato, scopre l’infinito della misericordia.

La saggezza dei Padri della Chiesa, del resto, portava a dire che “Chi conosce il proprio peccato più grande di chi risuscita un morto.” (Isacco il Siro).

Il malinteso è svelato: Gesù non è venuto per i giusti, ma per i peccatori (Mt 9,13) e peccatori e prostitute ci precederanno nel regno di Dio (Mt 21,31). Gesù è venuto a colmare le distanze con i peccatori. Sol che ci rendiamo conto di essere tali.

 

Isabella Tondo

 

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