* L’articolo è stato precedentemente, e gentilmente, pubblicato in anteprima da Settimana News e Aimc News.
Ha destato una notevole eco sulla stampa (con l’eccezione dei giornali governativi) il comunicato stampa dello scorso 5 marzo, con il quale i vescovi di Sicilia hanno preso posizione nei confronti del disegno di legge sull’autonomia differenziata, attualmente in discussione alla Camera dopo l’approvazione in Senato, il 23 gennaio scorso.
Sarebbe riduttivo vedere in questo documento una semplice preoccupazione per gli interessi della Sicilia. Esso va letto alla luce della grande attenzione che la Chiesa italiana ha manifestato, alla fine del secolo scorso e nei primi anni di questo, ai rapporti fra le diverse aree del nostro paese, e in particolare tra Settentrione e Meridione.
Non si può infatti dimenticare che il tema dell’autonomia delle regioni si intreccia strettamente con quella che una volta veniva chiamata «questione meridionale». Lo evidenzia, se non altro, il fatto che a chiedere con insistenza la riforma sono le prospere regioni del Nord, anche se quelle del Sud, almeno quelle governate da maggioranze di destra, Sicilia compresa, si sono dette anch’esse favorevoli.
Lo sfondo dottrinale
Forse non tutti ricordano che su questa complessa problematica la Conferenza episcopale italiana ha sentito l’esigenza di pronunziarsi con due ampi documenti, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, del 1989, e Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, del 2010, che autorevolmente leggono la questione alla luce della dottrina sociale cattolica e meritano perciò, soprattutto in questo momento, l’attenzione di tutti, e in particolare dei credenti.
In entrambi questi documenti il punto fondamentale su cui i vescovi poggiavano la loro riflessione era che «il paese non crescerà se non insieme» e che «il bene comune è molto di più della somma del bene delle singole parti» (Per un Paese solidale, n. 1).
Siamo lontanissimi, però, da un cieco statalismo, che i cattolici italiani hanno sempre strenuamente combattuto fin dal tempo del Risorgimento. Nella Costituente sono stati loro a volere introdurre nella Costituzione repubblicana il regionalismo. E il principio di sussidiarietà, oggi spesso invocato in sede sia nazionale che europea, ha la sua prima matrice proprio nell’insegnamento sociale della Chiesa. A questo proposito si ricordava, nel secondo documento della CEI, «la sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di Aldo Moro» (n. 8). Alla luce della loro storia, nessuno è meno sospetto dei cattolici di voler misconoscere i valori e le esigenze differenziate delle diverse regioni italiane.
Ciò che i vescovi hanno voluto combattere, già dalla fine del secolo scorso, è piuttosto una deriva culturale che «ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo» (n. 5). Il silenzio calato sulla questione meridionale era ai loro occhi un indizio inquietante dell’eclisse del senso del bene comune che si è registrata in questi ultimi anni in Italia.
È dunque in nome di questo bene comune e della solidarietà da esso richiesta che la Chiesa fissava, già nel 2010, dei limiti precisi alle autonomie reginali. Perché, se la solidarietà richiede sempre la sussidiarietà, è vero anche il reciproco: «La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia». Ciò che serve, sottolineavano i vescovi, è un «federalismo solidale», che «rafforzerebbe l’unità del Paese, rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali».
Secondo la Conferenza episcopale italiana, «un sano federalismo rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio», costringendo in qualche modo gli amministratori meridionali a «rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini». Ma «l’impegno dello Stato deve rimanere intatto (…) per evitare che si creino di fatto diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell’appartenenza regionale» (n. 8).
La solidarietà nazionale compromessa
È su questo sfondo che va letto il comunicato dei vescovi siciliani. In esso la critica fondamentale al ddl sull’autonomia differenziata è di non tener conto degli «squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel meridione e che potrebbero portare a colpire in modo grave l’unità nazionale in favore di preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate». Invece di favorire una sussidiarietà al servizio della solidarietà, la riforma rischia, secondo loro, di dissolvere l’unità nazionale in nome degli interessi particolaristici di alcune regioni.
In questa logica, nel documento della Conferenza episcopale sicula si sottolinea che «la differenziazione è da considerarsi come un corollario del principio di sussidiarietà» all’interno di un quadro nazionale unitario, e che perciò «la dislocazione differenziata di funzioni legislative in singole Regioni non è affatto (…) un “diritto” di alcune Regioni (o dei loro “popoli”)».
E in questa luce si comprendono le «criticità» del ddl in esame alla Camera segnalate nel comunicato dei vescovi. Ne sono un esempio, secondo loro, «le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite» alle regioni autonome, previste agli art. 5 e 6.
Il ddl prevede che questo finanziamento avvenga «attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale». Ma «la compartecipazione si collega alla produttività dei territori regionali, con la conseguenza che territori maggiormente produttivi avrebbero introiti maggiori di altre realtà territoriali con una produttività storicamente ridotta e ciò trasformerebbe la differenziazione in diseguaglianza con l’evidente rischio di colpire concretamente la coesione dei territori mettendo in grave pericolo l’unità nazionale».
Questo pericolo, si osserva nel comunicato, è ancora più evidente se si considera che «nell’art 10, dedicato alle misure perequative, non v’è traccia di fondo perequativo di solidarietà nazionale che permetta di riequilibrare le forti disomogeneità territoriali». Su questo punto i vescovi siciliani sono molto chiari: «Fino a che le regioni del meridione non raggiungono, con un fondo dedicato, almeno la media della capacità fiscale nazionale per abitante, non si può affrontare per nessuna regione il tema dell’autonomia differenziata, a meno che non si preveda un fondo di solidarietà nazionale vincolato a sanare le disparità delle capacità fiscali territoriali».
E aggiungono: «Anche la riduzione del cosiddetto “Fondo complementare” da 4 miliardi e 400 milioni di euro, a poco più di 700 milioni di euro rappresenta un ulteriore rischio per le regioni più povere».
Le «criticità» relative ai LEP
Da parte della maggioranza si insiste sempre sulla garanzia rappresentata dai LEP (livelli essenziali delle prestazioni), che dovrebbero essere determinati prima di procedere alla realizzazione della riforma. Ma nel comunicato dei vescovi proprio il tema dei LEP è considerato motivo di ulteriore «criticità». Innanzi tutto, perché nel ddl «manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2 Cost. fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti, che costituirebbe un ulteriore e migliore ancoraggio costituzionale anche a garanzia e vincolo nella determinazione dei LEP».
Inoltre, in riferimento all’art. 3 del ddl, si fa notare che «appare poco prudente la scelta di consentire al Governo di adottare dei decreti legislativi per la determinazione dei LEP, posto che con tale scelta il Parlamento, attraverso delle Commissioni, potrà soltanto esprimere un parere su quanto deciso dal Governo e, in caso di silenzio, il Decreto legislativo potrà essere comunque adottato».
Le conseguenze per la Sicilia
È in questo contesto più ampio, e che riguarda tutto il nostro paese, che i vescovi siciliani guardano alle conseguenze per l’Isola del passaggio a «uno Stato “Arlecchino”», facendo notare «che, secondo degli studi fatti dalla Ragioneria Generale dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di euro circa l’anno: un impatto disastroso per una economia già in grande sofferenza».
Infine, sempre per quanto riguarda la Sicilia, regione a Statuto speciale, il comunicato fa presente che, prima di perseguire ulteriori forme di autonomia differenziata, bisognerebbe che venisse effettivamente realizzato il dettato dello Statuto della Regione siciliana che, all’art. 38, prevede:
«1. Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nell’esecuzione di lavori pubblici. 2. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale. 3. Si procederà ad una revisione quinquennale della detta assegnazione con riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo».
«Quindi», osservano i vescovi, «oltre che rilevare ciò che di critico esiste nell’attuale riforma, la classe dirigente politica siciliana dovrebbe chiedere al governo nazionale l’attuazione completa dello statuto e non sprecare le risorse in dotazione».
L’ultima frase accenna – per la verità forse troppo di passaggio e timidamente − al grande problema che fa da contraltare alle sperequazioni della riforma e che da sempre viene segnalato, sia a livello di CEI che di CESi, e che è quello delle responsabilità della classe politica del Meridione e di quella siciliana in particolare.
Già nel documento della Conferenza episcopale italiana del 1989 si diceva chiaramente: «Sono necessari, e doverosi, l’aiuto e la solidarietà dell’intera Nazione, ma in primo luogo sono i meridionali i responsabili di ciò che il Sud sarà nel futuro» (n. 15).
La soluzione non può essere l’assistenzialismo. L’aiuto che il Paese può e deve dare al Sud è di stimolarlo a trovare in sé stesso le energie e le risorse per uscire dal degrado. E ciò richiede un impegno dei cattolici per rinnovare una classe politica meridionale che, al di là delle contrapposizioni partitiche, risente ancora spesso di un invasivo stile clientelare, in cui affonda le sue radici la presenza della mafia.
Ma il rimedio a questo non è certo una dissoluzione dell’unità nazionale, che rischia di consegnare il Sud alle sue peggiori derive.
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