di Chiara Insinga
Un recente articolo di Vito Mancuso apparso su La Repubblica (13 settembre 2013) mi ha portato a ripensare, alla luce delle riflessioni in esso esposte, a uno dei personaggi del grande romanzo dostoevskijano I fratelli Karamazov, ovvero Alëša, il più giovane dei tre fratelli.
In questo articolo il teologo afferma che la differenza tra un credente e un non credente consisterebbe non tanto nell’accettare o meno la divinità di Gesù, <<quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo>> e, in seguito, cita sant’Agostino, secondo il quale il vero oggetto dell’amore per Dio è <<la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo>>. Sono proprio queste parole, su cui Mancuso ci invita a riflettere che, a mio parere, aiutano a gettar luce sul personaggio di Alëša, una figura esemplare per il particolare dono di saper riconoscere questa luce interiore in sé e negli altri e dunque, in definitiva, per la sua straordinaria capacità di amare.
Ciò che colpisce maggiormente di questo personaggio, infatti, è vedere come sia animato da un sentimento di fiducia e di amore verso il prossimo così schietto ed immediatamente percepibile da suscitare negli altri una naturale e profonda simpatia. Per citare un aforisma coniato apposta per lui da un personaggio minore del romanzo, il giovane Karamazov sarebbe l’unico uomo al mondo che, se lasciato solo e senza un soldo in una metropoli di un milione di abitanti, in un baleno troverebbe chi lo sfami e lo ospiti in casa propria senza che il beneficato provi umiliazione e con sommo diletto del benefattore.
L’amore di Alëša verso il prossimo trova la sua piena e più naturale espressione nel suo atteggiamento nei confronti di tutti i personaggi del romanzo, dal padre Fëdor Pavlovič, vecchio dissoluto e abietto, a Grušenk’a, la mantenuta che scatena la tremenda rivalità amorosa tra Dmitrij e il padre, allo starec Zosima, sua guida spirituale, che egli ama profondamente e per il quale nutre la più sincera devozione. Tutti coloro i quali, in qualunque modo, entrano in rapporto con il giovane Karamazov ne rimangono affascinati e “contagiati” a tal punto che è solo rapportandosi con lui che riescono ad esprimere il loro volto più umano. Ad esempio Fëdor Pavlovič, che sembrerebbe incapace di qualsiasi sentimento, mostra di nutrire per il più giovane dei figli una particolare affezione poiché – come afferma lui stesso – egli è l’unico uomo sulla terra dal quale non si senta giudicato né guardato con disprezzo.
Ma la natura di questo personaggio, che affascina e al contempo spesso spiazza il lettore nel suo candore e nella sua schiettezza, trova piena espressione in quella sezione del libro intitolata “Ragazzi” (parte IV, libro X), che costituisce il prosieguo del capitolo “Entra in rapporto con gli scolari” (parte II, libro IV), pagine di rara bellezza che possono considerarsi come un romanzo nel romanzo.
Poco prima del processo contro il fratello Dmitrij accusato di parricidio, Alëša si ritrova per strada nel bel mezzo di una lite tra il piccolo Iliuša, un bambinetto magrolino e malaticcio, e un gruppo di studenti del ginnasio, compagni di scuola di quest’ultimo. Il bambino, preso a sassate e schernito dagli altri ragazzi più grandi di lui, ricambia i colpi con una foga e un ardire che ne rivelano una rabbia incontenibile. In questo episodio, che sarà poi ripreso e sviluppato nella sezione del romanzo intitolata “Ragazzi”, vediamo come Alëša, profondamente colpito dalla scena, riesca ad avvicinarsi al gruppo di scolari e a conquistarne subito la fiducia. Egli, infatti, si rivolge loro con assoluta naturalezza e, ponendosi su un piano di perfetta parità, li spinge a rivelargli il motivo di quella pericolosa lite, cioè il contrasto tra Iliuša e il loro compagno Kolja, anima e “leader” del gruppo, fino a poco tempo prima amico e protettore di Iliuša.
Ancora una volta, dunque, il giovane Karamazov, in una circostanza difficile e sfavorevole, con il suo atteggiamento di apertura verso il prossimo, riesce ad attirare a sé quei giovani nel tentativo di calmarli e di distoglierli da quel comportamento, ed essi, come gli altri personaggi del romanzo, rimangono affascinati e soggiogati dal suo carisma.
Nonostante Alëša tenti di difenderlo facendogli riparo con la propria persona, la reazione di Iliuša è del tutto diversa da quella dei suoi compagni: egli, infatti, aggredisce il suo difensore, memore di un’offesa che Dmitrij Karamazov aveva arrecato a suo padre, offesa che brucia come una dolorosa ferita ancora aperta nell’anima delicata e sensibile del bambino.
In seguito, nella sezione dal titolo “Ragazzi”, vedremo come il giovane Karamazov riesca a far riappacificare i compagni con Iliuša, nel frattempo ammalatosi gravemente. Infine anche Kolja si riavvicinerà al suo amico di un tempo accettando di andare a trovarlo in casa sua dove giace a letto ormai prossimo alla morte. E’ proprio grazie ad Alëša che il bambino, essendosi ormai riappacificato con l’amico del cuore, affronterà serenamente la morte, e di grande umanità e commozione sono le parole da lui pronunciate nelle pagine finali del romanzo in occasione dei funerali del piccolo Iliuša. Egli, in questa circostanza, si rivolge ai compagni piangenti chiedendo loro di scambiarsi la solenne promessa di non dimenticarsi mai prima di tutto del giovane amico morto e, poi, gli uni degli altri: <<E qualunque abbia ad essere il destino che ci aspetta nella vita, ci ricorderemo pur sempre di quando portammo alla tomba il povero ragazzo, che prima prendevamo a sassate e poi abbiamo tutti imparato ad amare così (…). Non lasciamoci mai cader di mente quanto furono belle le ore che abbiamo passato qui, tutti insieme, riuniti da un sentimento così nobile e buono, che ha reso anche noialtri, per quanto tempo è durato il nostro amore al povero ragazzo, migliori forse che non siamo in realtà>>. Da quel momento in poi, dunque, nulla ci sarà di più sacro per tutti loro del ricordo dell’amico morto, un pensiero salutare e fruttuoso per la vita in quanto in grado, con la sua stessa forza, di trattenere ciascuno dal compiere il male, nel ricordo dell’amore per l’amico e del dolore subito per la sua perdita.
Nell’eco di queste parole di consolazione e di amore per la vita e per il prossimo, potremmo infine immaginare che, alla domanda di Sant’Agostino “Quid autem amo, cum Te amo?” (Confessioni, X,6,8), il giovane Alëša risponda che amare Dio è amare l’uomo e che il vero oggetto dell’amore per Dio è l’uomo stesso; una grande lezione, questa, che il giovane Karamazov dà a noi, uomini del nostro tempo, una lezione di fiducia e, al contempo, di speranza di cui oggi più che mai avvertiamo il bisogno.
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