Perché io non scriverò “Giorgia”

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«Scrivete “Giorgia”»

«Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda “Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi. Il potere non mi cambierà, il Palazzo non mi isolerà».

Lo ha detto la premier e leader di FdI Giorgia Meloni, dal palco della conferenza programmatica del suo partito, a Pescara, annunciando alla platea in delirio dei suoi militanti la decisione «di scendere in campo per guidare le liste di Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni elettorali» nelle prossime elezioni europee.

Ma già nel simbolo elettorale di Fratelli d’Italia c’è scritto “Giorgia Meloni”, così come, del resto, in quello della Lega si legge “Salvini Premier” e in quello di Azione “con Calenda”.

Ancora più eloquente il permanere, nel contrassegno di Forza Italia, dell’intestazione “Berlusconi presidente”, quasi a inverare la barzelletta secondo cui il cavaliere, in vita, avrebbe rifiutato di  investire in un sepolcro, considerandosi destinato alla resurrezione, come Gesù.

A mettere il proprio nome nel simbolo elettorale ci aveva provato anche la segretaria del PD, Elly Schlein, ma la sua proposta ha suscitato nel partito una rivolta che l’ha costretta a fare marcia indietro. L’obiezione, alla fine vincente, è stata che nel Partito Democratico una cosa simile non si era mai fatta e che gli elettori sarebbero rimasti sconcertati. Ma lei ha ceduto a malincuore.

Il primato dell’ottica nazionale su quella europea

Questa personalizzazione delle liste è già evidente, del resto, nella scelta di ben quattro leader di partito – Meloni per FdI, Schlein per il PD, Tajani per FI, Calenda per Azione – di presentarsi come capilista in tutte o almeno in alcune circoscrizioni. Un fatto unico in Europa e che già di per sé merita una riflessione.

Perché è chiaro che una simile scelta implica una profonda sfiducia nella lucidità dei propri elettori, ai quali viene fatto balenare, come uno specchietto per le allodole, il nome più prestigioso del partito, mettendolo in cima alla lista dei candidati e spingendo così a votarla.

Magari aggiungendo, come nel caso della Meloni, uno spot sintetico ed efficace: «Con Giorgia l’Italia cambia l’Europa». Puntando sul fatto che il votante non si renda conto che la sua preferenza, in realtà, sarà inevitabilmente dirottata su qualcun altro, di cui egli  non sa nulla e che non avrebbe mai scelto come suo rappresentante.

Perché, in realtà, si sa già benissimo che né la Meloni, né la Schlein, né Tajani, né Calenda, metteranno mai piede nel Parlamento europeo. Per impegnarsi a pieno tempo in Europa – come promettono negli spot e negli slogan – dovrebbero rinunciare a farlo in Italia, e ovviamente, per il loro ruolo, non possono né vogliono farlo.

Il loro intento, nel candidarsi fittiziamente, è solo di attirare voti sul proprio partito e rafforzarlo, nella tornata elettorale dell’8-9 giugno, all’interno dello scenario italiano.  

Una operazione evidentemente scorretta, che non si verifica in nessuno dei grandi Stati europei, e che Romano Prodi ha definito «una presa in giro dei cittadini», sottolineando che «si chiede agli elettori di dare il voto a una persona che di sicuro non ci va a Bruxelles, se vince. Queste sono ferite alla democrazia».

Al di là della “presa in giro”, il significato di questo fenomeno, tutto italiano, è alla fine uno solo: la totale strumentalizzazione del problema dell’Europa a quello angustamente nazionale. Quello che conta è vincere in Italia.

Da qui anche la tendenza, nel dibattito elettorale, a lasciare in secondo piano i problemi specifici dell’Unione europea – quelli che il nuovo Parlamento dovrà  realmente affrontare – , particolarmente urgenti e drammatici in questa congiuntura storica, per puntare su polemiche nostrane che appassionano l’opinione pubblica ed evidenziano il precipitare del livello di consapevolezza politica nel nostro paese.

«Questa Italia che cambia oggi può cambiare l’Europa», ha detto Giorgia Meloni annunziando la propria candidatura. Proprio la sua scelta – come quella degli altri leader che l’hanno condivisa – induce spontaneamente a pensare: «Speriamo di no!».

Il futuro dell’Europa dipende infatti dalla possibilità che finalmente i paesi membri escano dalla logica autoreferenziale che ancora appare predominante  e di cui proprio quello  che sta accadendo in Italia è l’espressione più lampante.

L’avvento del populismo

Si inserisce in questa corsa alla personalizzazione l’inserimento dei nomi dei leader nei simboli elettorali, di cui si parlava all’inizio. Nella Prima Repubblica, fino al 1992, nessun partito ha mai messo il nome del suo leader nel simbolo.

La politica era basata sul confronto tra visioni diverse – si pensi al conflitto tra quella democristiana e quella comunista -, e chi andava a votare sapeva di stare facendo una scelta di prospettive ideali e di valori.

Con la fine  di questa fase storica, dovuta anche al tramonto delle grandi ideologie, e con l’avvento della Seconda Repubblica, al posto delle idee hanno acquistato sempre più un ruolo centrale i personaggi.

Così, per la prima volta, nelle elezioni politiche del 1992, si è assistito alla presentazione di una «lista Pannella». Ma la svolta decisiva è stata  in quelle del 2001, quando Berlusconi ha inserito il proprio nome nel simbolo di un partito – Forza Italia – nato da lui e in funzione di lui.

Scelta emblematica, che ha espresso bene l’avvento di una nuova stagione, in cui è stata la sua persona, più che le sue idee, a condizionare la politica italiana. E le tornate elettorali si sono ridotte a un plebiscito sul suo “personaggio”, con la stessa intensità idolatrato dai suoi fans e detestato dai suoi avversari.

Significativo il fatto che il suo non fosse un programma politico, valido o meno in sé, ma un personale “contratto con gli italiani”, un appello ad avere fiducia in lui.

Questo dialogo diretto tra il leader e il “popolo” è tra le novità che hanno segnato l’avvento del populismo in Italia. Mentre venivano sempre più svalutate le mediazioni istituzionali (il parlamento) e culturali (gli intellettuali) – la “casta” – , la figura di Berlusconi è diventata, nell’immaginario collettivo, l’icona delle aspirazioni dell’italiano medio (le donne, i soldi, il successo).

E nell’italiano medio il cavaliere ha voluto identificarsi mediaticamente, riproducendo la sua carica di umanità e strizzando l’occhio ai suoi vizi (come quando ha pubblicamente giustificato l’evasione fiscale) . “Uno di noi”, vicino alla gente, capace di ascoltare tutti e di comunicare con tutti, mai prigioniero di un ruolo ingessato, anche a costo qualche volta di scandalizzare i suoi interlocutori stranieri con le sue battute e i suoi comportamenti ben poco istituzionali.

Da qui anche uno stile politico personalistico, insofferente delle regole, considerate inutili fardelli formali, e delle opposizioni, accusate di “remare contro”, soprattutto in costante polemica con la magistratura, vista come un impaccio o una minaccia, invece che come espressione della divisione dei poteri prevista dalla nostra Costituzione.

L’esempio di Berlusconi non è rimasto isolato. Esso ha contagiato e contaminato il clima politico e continua a condizionarlo fino ad oggi. Tutti i partiti ne sono stati profondamente influenzati, perdendo progressivamente la loro identità. E ne è stata influenzata la gente. Ne vediamo gli effetti. Mai come oggi la politica si è ridotta a una corsa al consenso e al gradimento espresso nei sondaggi.

Un solo esempio: pochi giorni fa, nel Parlamento europeo, i rappresentanti dei partiti italiani, sia di governo che di opposizione, sono stati gli unici – su 27 paesi – a rifiutarsi, per timore dell’impopolarità, di approvare la proposta del nuovo Patto di stabilità, che potrebbe comportare dei sacrifici e che alla fine anche il governo italiano non ha potuto che sottoscrivere. 

Ma è tutto lo stile del dibattito politico che è molto cambiato, rispetto a quello della Prima Repubblica. Invece di proporre idee, si gridano slogan. Invece di veri programmi, contano i nomi e le facce. Non a caso le prossime elezioni europee vengono presentate spesso come un duello tra due donne, Meloni e Schlein (alla faccia del patriarcato…), che chiedono entrambe fiducia nella loro persona.

«Scrivete Giorgia»

In questo quadro rientra e spicca per coerenza l’atteggiamento della nostra presidente del Consiglio. Non per nulla, quando è morto il fondatore e padre della Seconda Repubblica, ha voluto il lutto nazionale. Anche per lei, come per Berlusconi, i magistrati sono un ostacolo e, in particolare, quelli di loro che, basandosi sulla legge, «contrastano le misure del governo» relative ai migranti, «remano contro».

Anche lei, come Berlusconi, non vuole restare prigioniera dell’istituzione: «Io sono fiera di essere una persona del popolo». E anche lei col popolo vuole avere un contatto diretto, senza passare dalle mediazioni (già oggi il Parlamento è praticamente azzerato) che attualmente sono previste dalla Costituzione.

Tutto previsto: nel programma elettorale della destra si prevedeva la riforma del premierato, al fine di «assicurare la stabilità governativa e un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il governo». Non a caso questa viene definita «la madre di tutte le riforme».

E, se verrà fatta, lo sarà davvero, perché comporterà un radicale stravolgimento della nostra Carta costituzionale, rendendo istituzionale  quel dialogo personale tra il “capo” e il “popolo” che Berlusconi già aveva realizzato mediaticamente e che trasforma il discorso politico in un atto di fede personale.

L’approccio ideale, in passato, per tutti i totalitarismi, e che oggi si potrà ancora più facilmente realizzare nelle forme nuove consentite dalla realtà virtuale, grazie a cui il leader carismatico diventa un ologramma in cui tutti si riconoscono.

Rileggiamo le parole del discorso di Pescara: «Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda “Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi».  Ci sono persone che hanno pianto di commozione, ascoltandole. 

A me sono venute in mente le amare riflessioni che ho espresso in queste righe. E molti elettori, l’8 e il 9 giugno, scriveranno “Giorgia” sulla scheda elettorale. So di essere in minoranza, ma io non lo farò.

12 replies on “Perché io non scriverò “Giorgia””

  • Sono pienamente d’accordo. La politica sembra trasformarsi così in duelli e sfide personalistiche, facendo passare in secondo piano le tematiche importanti nazionali e soprattutto internazionali, con responsabilità precise di chi ha il compito di vedere per primo tali limiti. Povera politica.

  • Concordo pienamente.
    Nel 1992 vi fu la fine della I^ Repubblica per la reazione agli “scandali” e all’occupazione partitica delle Istituzioni statali.
    Oggi, in un tempo in cui la partitocrazia si è incancrinita fino a diventare leaderistica,rimaniamo benpensanti, ma incapaci di organizzarci autonomamente o ad aderire a un “partito nuovo” e non a un nuovo partito come è Insieme.
    Il “Confronto”, avviato da Stefano Vitello, per organizzarci politicamente in termini operativi, si è interrotto.
    Vogliamo riprenderlo al fine di iniziare a “trasformare” l’attuale Sistema Italia?

  • Non solo povera politica ma di conseguenza poveri noi, perché, in quest’aria che tira, se non vuoi cadere nella padella sarai costretto a cadere nella brace. Veramente difficile scegliere in questo campionario…che fa scadere il valore del voto.

  • Nel 1992 la I^ Repubblica è finita per gli scandalI che avevano investito i partiti e per la partitocrazia che aveva invaso gli organi dello Stato.
    Da allora la situazione è peggiorata perché la partitocrazia è diventata leaderistica e continua a occupare le Istruzioni statali a scapito di un Parlamento che dovrebbe rappresentare la sovranità popolare; addirittura il Governo nazionale, che dovrebbe essere super partes, si esprime come forza di maggioranza, contravvenendo alla nostra Costituzione repubblicana.
    Oggi noi cattolici abbiamo una responsabilità pari a quella della fine della 2^ guerra mondiale, sia pure in un diverso contesto storico: risanare la Democrazia.
    È possibile fare ciò non solo con le buone idee, quando soprattutto con le efficaci azioni; dobbiamo adoperarci a trasformare il “Sistema Italia”, come ebbe a dire il prof. Stefano Zamagni nel suo Manifesto di qualche anno fa, dal quale nacque un “partito nuovo” e non un nuovo partito: Insieme.
    Ricordo a ciascuno di noi che il nostro gruppo “Confronto” nacque su iniziativa di Stefano Vitello per fare nascere oltre che un movimento di pensiero anche di azione, che ispirandosi ai valori cristiani, potesse essere segno di riforma Politica nei territori.
    Mi chiedo e vi chiedo: vogliamo tornare ad essere quelli per cui questo gruppo è nato?
    Io ritengo di SI.

    • Sì, anch’io. In nome della Costituzione italiana; in nome della Democrazia autentica; in nome degli interessi veri del Popolo italiano.

  • Che dire? Non ci sono parole nel senso che ce ne sarebbero troppe alcune meglio non dirle. Mi limito a questo: io non ci sto con lei né come persona, né come cittadina, né come donna. E mi secca molto che sia una donna a rivestire questo ruolo che se è politica significa servizio, cura, accoglienza. Hanno tutti giurato sulla nostra Costituzione, ma la conoscono? Io lo considero un reato di spergiuro punibile con l’esclusione da qualsiasi funzione pubblica. Quante sarebbero le sedie vuote?

  • che tre persone al giorno sono vittime di errori gi udiziari (con devastanti
    conseguenze sul piano umano e familiare), e maggior e
    responsabilizzazione di tutti gli attori del proces so, attuando la piena parità
    delle parti e la piena attuazione del principio cos tituzionale di presunzione
    di non colpevolezza.
    Forse per tutto questo, dopo appena un anno e mezzo di governo , e non
    per l’inserimento del nome nel simbolo, la Meloni d ice di esser sempre
    fiera di essere una persona del popolo. Non il simb olo elettorale, non un
    atto di fede cieca, dunque, come prospettato nell’a rticolo, ma la forza della
    concretezza.
    Si è consapevoli che ogni provvedimento è discutibi le e migliorabile, ma
    non si può negare che ci sia una coerenza con il pr ogramma presentato al
    corpo elettorale, sia nei contenuti che nella serie tà di attuazione.
    Aspettando sempre che non si strumentalizzi la demo crazia, agitando lo
    spettro antifascista, o impedendo alle associazioni pro life di tenere un
    dibattito nelle Università, di scongiurare di manif estare con violenza e
    lancio di insulti e bottiglie la presentazione di u n libro che deve essere
    presidiata dalle forze dell’ordine, come accaduto a Livorno, o assistere
    ancora ad esponenti di una certa cultura e consider ati grandi intellettuali
    progressisti di usare frasi del tipo “tornate nell e fogne”, ovvero post di
    illustri registi e attori con macabre immagini di testa all’ingiù, su cui
    nessuno dice che si corre il pericolo di ferire la democrazia. Prodi e non
    solo ma ogni opinionista e tutti dovremmo dire con forza, senza se e ma,
    che non è con la violenza o le colonizzazioni ideol ogiche che si zittisce
    l’avversario.
    Sciascia, che certamente fascista non era, ma auten tico democratico: “Il
    più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne
    raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizi one e catalogazione) è
    quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi
    fascista non è”.
    Giudizi sui fatti di programma e valori, dunque,e n on violenza preconcetta. ​
    Più onestà intellettuale e vera dialettica per le s celte, perché senza
    dialettica il pensiero muore.
    Filippo Vitrano

  • In un contesto dove il singolo parlamentare è inserito in un partito ed una linea politica definita e votata dagli elettori, non credo che possa ritenersi “ferita la democrazia” o addirittura “presa in giro” quando il leader di partito inserisca il proprio nome nel simbolo del partito, perché il leader del partito, proprio perché leader è il primo garante della corretta rappresentanza elettorale nell’interesse della nazione, e che ha sottoposto il programma di governo al consenso diretto elettorale, dopo averlo discusso, condiviso ed elaborato e perciò accettato. Dunque nessuno scandalo se il suo nome è inserito nel simbolo.
    Quel partito è infatti portatore in modo coeso di un programma che si presenta agli elettori in modo condiviso e responsabile, e si indica il leader che ne curerà e coordinerà l’attuazione, e che rappresenta un momento di coesione e di unità programmatica, che purtroppo non dimostra il partito di opposizione, con più anime, diviso su tutto, non in grado di esprimere una linea unitaria e coesa sui tanti temi nazionali e internazionali, e che quindi non può neanche indicare un nome rappresentativo e condiviso, come testimoniato dalle critiche all’inserimento del nome della Schelein e perciò una simile operazione non è stata ben vista.
    Ma non per questo bisogna gridare strumentalmente allo scandalo o alla presa in giro, o al tradimento della democrazia. Parole grosse che impongono una riflessione.
    Da tempo, e non certamente con la Meloni, ormai i il singolo parlamentare, come si mette in evidenza nell’articolo, in quanto organico al partito, segue le indicazioni di voto del gruppo dirigente, ciò che sarebbe partitocrazia, come in passato si verificava già nella prima repubblica, al tempo della democrazia cristiana e denunciato da Pannella.
    Ma circostanza questa che a mio avviso, tranne i casi di coscienza su temi particolari, non merita di essere demonizzata, ma ha una sua ragion d’essere dato che proprio per garantire la connessione con il corpo elettorale e scongiurare il tradimento degli elettori, si impone una disciplina di partito, che dopo avere discusso e approvato al proprio interno, deve focalizzarsi sul rispetto degli impegni elettorali assunti con il popolo, fermo sempre il dibattito parlamentare con le altre forze politiche e la individuazione di scelte, laddove possibile, il più ampiamente condivise.
    Ed è questa la logica della riforma del premierato (su cui la Meloni ha dichiarato più volte di mirare alla più ampia condivisione costituzionale) che non modifica i poteri di garanzia del Presidente della Repubblica, con la sola eccezione che il Presidente del Consiglio è eletto direttamente dai cittadini, e che allo stesso dunque spetta il potere di revocare e scegliere la squadra di governo e i ministri.
    Non credo che questo sia un vulnus costituzionale, perché anzi avvicina maggiormente il corpo elettorale alle istituzioni, in una democrazia diretta, adottando una forma analoga al modello francese, “perché consentire ai cittadini di scegliere è democrazia”, mettendo fine ai governi tecnici e ai trasformismi, contro la instabilità politica, e dando luogo a un più intenso avvicinamento dei cittadini alle Istituzioni, riducendo le eccessive mediazioni, “perché i cittadini devono scegliere direttamente da chi farsi governare”
    Non vedo nessun becero populismo in tutto questo, a meno che non si ritenga populismo l’espressione dell’articolo 1 della Costituzione, che nel suo incipit, dopo la forma repubblicana, afferma che la sovranità appartiene al popolo.
    Presentarsi al popolo con un programma preciso e chiedere il consenso, è conforme alla Costituzione, e si è verificato in realtà in modo diretto nell’ultima tornata elettorale, dopo però circa undici anni di mediazione istituzionali, che hanno portato a governi con un programma che non ha ricevuto una investitura diretta della sovranità popolare, quando addirittura di governi tecnici, definiti e individuati dall’alto con mediazioni discutibili.
    Penso alla mediazione dell’ultimo governo Conte, quando a seguito della dissociazione di Renzi, il Parlamento è stata impegnato in una opera di trattative e mediazioni (qualcuno ha definito il Parlamento un mercato, ma non è stato Prodi) per scongiurare di andare a votare, anche creando un governo tra soggetti politicamente lontani tra loro (Mastella), per ottenere il consenso di qualche parlamentare per andare avanti, senza un preventivo programma predefinito e votato.
    La sovranità popolare e la democrazia sono parole vuote se il programma non è votato direttamente dal soggetto cui si attribuisce tale potere sovrano, e se è possibile una rappresentanza mediata questa deve avere necessariamente un ruolo secondario.
    Ritengo questa sì una ferita grave alla democrazia, come l’avere rimandato le ultime elezioni per dar vita a un governo tecnico calato dall’alto, invocando le restrizioni del covid, che impedivano i contatti e avrebbero aumentato i contagi nelle cabine elettorali, quando in tutta Europa si votava.
    Neppure mi sembra opportuno invocare una distorsione tra la ottica nazionale e quella europea, in cui la seconda è funzionale alla prima.
    La ormai stretta connessione e interdipendenza normativa ed economica, tra Europa e paese nazionale, impone già al momento della elezione nazionale (quindi in sede nazionale) un programma che riguarda anche la Europa, da sottoporre agli elettori sulla visione di Europa che si porterà avanti in quelle sedi.
    Quindi, proprio stante questo legame strettissimo tra politica nazionale ed Europa, il partito che si presenta in Italia agli elettori deve già nel suo programma indicare i contenuti e la visione dell’Europa che intende realizzare nei continui rapporti istituzionali, normativi, economici, di bilancio, che si hanno all’indomani delle elezioni nazionali all’interno dell’Unione.
    Il Consiglio Europeo, infatti, riunisce i Capi di governo nazionale, ed il Consiglio dei ministri europeo è composto dai ministri nazionali per materia da trattare, ed essendo essi i principali organi decisionali, ne consegue che il governo nazionale in quella sede porterà la visione e i contenuti, nonché le istanze nazionali che in sede di tornata elettorale nazionale, sono state già sottoposte al vaglio e condivise dal corpo elettorale. Questa è democrazia. Non si può pensare che quando si vota in Italia, si pensi solo al programma italiano, e quando si vota in Europa si pensa solo all’Europa, perché vincoli di bilancio in primis, impediscono oggi ad uno Stato di redigere un documento economico programmatico che non ha già dall’inizio il benestare degli organi europei.
    Altro dunque che scissione tra le due campagne elettorali, e di diversa ottica nazionale ed europea, perché di una unica organica visione si tratta.
    Quali sono allora i valori e i contenuti che si vogliono portare in Europa? Forse bisognerebbe rispondere a questa domanda, piuttosto che soffermarsi sul nome che si mette nella lista elettorale, e verificare anche la serietà nell’attuazione del programma.
    Bisogna cambiare l’Europa, “Lo dicono anche Letta e Draghi, perché è questo il dibattito che va fatto”, e “anche chi prima diceva che le cose andavano bene, oggi (Draghi e Letta) fanno i conti con il fatto che le priorità sono altre. “Vorrei che la campagna elettorale si svolgesse su questa materia (Giorgia Meloni)”.
    Essere in Europa non vuol dire accettare supinamente qualunque decisione, perché, altrimenti, si viene definiti spregiativamente sovranisti o populisti.
    Bisogna, dunque, cambiare l’Europa, riportarla al suo spirito di pace, amicizia e solidarietà, che era lo spirito dei Trattati Istitutivi.
    E’ quello che succede oggi?
    Sul piano Europeo è nota la posizione del Governo: una Europa che si limiti ai Trattati e che torni al suo spirito originario.
    Alfredo Mantovano, stretto consigliere della premier, segretario alla Presidenza del Consiglio (vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino, per anni Presidfente della fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre”) significativamente, a proposito della introduzione del diritto all’aborto nella Costituzione Europea, ha detto che tale tema non rientra nel perimetro dei Trattati, in cui non rientrano neppure certi nuovi presunti diritti umani, più legati ai bisogni che alla vera natura di diritti.
    Sotto questo aspetto, il Governo Meloni per primo ha dato attuazione a quella parte della legge sull’aborto per una maggiore consapevolezza ed aiuto alle donne in difficoltà, nel rispetto sempre della libertà decisionale; su temi, quali quello dell’utero in affitto, è in corso di approvazione in Italia una legge sulla proibizione di questa pratica mercificatrice (prima firmataria e promotrice Carolina Varchi di Fratelli di Italia).
    Tale posizione coerentemente sarà sostenuta in Europa.
    Si ricordi che il Papa non ha paura di dire che utero in affitto e gender sono due follie.
    Così come il Governo Italiano ha anche disposto la tassazione degli extraprofitti delle Banche, che locupletano sulla differenza del tasso variabile dei muti, rialzati dall’attuale Presidente della Banca Europa, Lagarde, favorendo le banche e impoverendo le famiglie, che oggi pagano una rata di mutuo quasi doppia, a fronte di economisti che evidenziano la assoluta inutilità di tali misure per combattere la inflazione, perché non di inflazione da domanda si tratta, ma di costi.
    Le priorità dell’Europa di oggi, come sembra dal dibattito politico, sembrano essere le farine di insetti promesse dalle Unione Europea unitamente alla carne sintetica (che in Italia sono state proibite da questo governo e comunque le farine di insetti fatte oggetto di misure restringenti e che inducano il consumatore a scelte consapevoli);
    Ma la Meloni ha dato prova sin’ ora di essere una persona credibile e coerente, tra quello che dice e opera, e che la linea seguita a livello nazionale sarà perseguita in Europa (cambiare l’Europa è il primo messaggio della campagna elettorale) e che spende le sue energie in modo convinto? Altra domanda.
    Su quest’ultimo punto credo che neanche i nemici più pregiudizialmente orientati, possano mettere in discussione l’impegno della premier ed il senso di responsabilità e rispetto degli impegni assunti. La credibilità non è secondaria in democrazia. E in democrazia essa si misura in primo luogo sull’attuazione del programma elettorale votato democraticamente e che costituisce il fondamento della investitura istituzionale.
    Sotto questo aspetto sul tema della occupazione e del lavoro giovanile (parte essenziale del programma ) l’Istat registra a marzo un aumento degli occupati di 425000 unità, dopo anni di reddito di cittadinanza, mettendosi al centro, secondo la tradizione italiana, la piccola e media impresa (al centro del programma elettorale) il vero motore della economia italiana, muovendosi nella direzione del passaggio da un assistenzialismo ad una promozione del lavoro, anche con importati sgravi contributivi, una maxi deduzione al 120% per chi assume (nuovo superbonus lavorativo per lanciare il lavoro e che non a caso arriva al 130% per gli ex percettori del reddito di cittadinanza); riduzione ulteriore del cuneo fiscale, riforma fiscale, con il passaggio dalla lotta alla evasione non solo con repressione e sanzioni, ma con una accentuazione maggiore del rapporto di lealtà e fiducia tra fisco e contribuente, con la introduzione di strumenti quali il concordato biennale e accorpamento delle aliquote fiscali e fiducia reciproca, in un paese dove la pressione fiscale è tra le più alte al mondo, e i servizi lasciano a desiderare.
    Ancora la famiglia e gli anziani (al centro del programma elettorale) sono stati destinatari di importanti provvedimenti, come sgravi contributivi per giovani donne lavoratrici per combattere l’idea che la denatalità (altissima in Italia e in Europa) è un disincentivo al lavoro, l’aumento dell’assegno unico per le famiglie numerose, l’aumento del periodo di congedo parentale per dedicarsi ai figli, bonus nido fino a 3600 euro per le famiglie, il decreto anziani (mai a memoria ricordo un decreto era stato dedicato agli anziani) che prevede l’introduzione sia pure in via sperimentale della prestazione universale, ossia l’assegno di accompagnamento per gli anziani più fragili, oltre un assegno di assistenza con l’introduzione di una legge quadro per mettere in protezione reale le persone più bisognose, e la previsione di convenzioni, anche con enti privati, quali nuove misure di socializzazione pubbliche per garantire un sostegno concreto, e previste anche misure per favorire il turismo degli stessi per una vita attiva, come anche previsto dal decreto legislativo.
    Sul piano internazionale gli incontri e le conferenze con i principali leader europei ed africani, per lanciare nella conferenza Italia – Africa tenutasi in Senato (non ricordo a memoria simili iniziative), il piano Mattei per aumentare la cooperazione sopratutto con i paesi africani, per investire risorse e dare impulso a uno sviluppo economico, sociale e tecnologico e infrastrutturale, per migliorare le condizioni di vita e garantire il primo diritto, che è quello di non esser costretti a emigrare, lasciando figli e genitori, e coinvolgendo i leader europei ad affrontare in modo veramente unitario e solidale il tema della immigrazione, con la approvazione del Parlamento Europeo e la condivisione della Commissione Europea (anche questo al centro del programma elettorale).
    Sul piano formativo, con l’obbiettivo di avvicinamento della scuola professionale e tecnica al mondo del lavoro, è in dirittura d’arrivo la riforma degli istituti tecnici, che prevede un potenziamento del processo di alternanza scuola lavoro, un aumento delle ore da dedicare alle materie tecniche, l’aumento di laboratori per esercitazioni pratiche e attrarre maggiormente gli studenti, e l’ingresso di docenti anche dalle aziende di settore, per consentire più possibilità di lavoro e con tempi di ingresso più rapidi, favorendo l’incontro con la domande delle imprese. Si pensa a dei “campus tecnici”, come comunità di incontro tra scuola, centri di formazione professionale delle aziende, e percorsi superiori per chi opta per ulteriori specializzazioni (Its academy). In tutte le scuole, inoltre, e su un terreno più propriamente educativo, negli atti ministeriali si è ribadita per la riuscita del processo formativa la necessaria centralità e autorevolezza degli insegnanti, che non può essere disgiunta da una cultura oltre che dei diritti dello studente, anche del rispetto e della responsabilità nella condotta scolastica.
    Non ultimo la giustizia dove importanti provvedimenti sono stati varati, e altri sono in cantiere per ridurre gli errori giudiziari (le statistiche dicono che tre persone al giorno sono vittime di errori giudiziari (con devastanti conseguenze sul piano umano e familiare), e maggiore responsabilizzazione di tutti gli attori del processo, attuando la piena parità delle parti e la piena attuazione del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza.
    Forse per tutto questo, dopo appena un anno e mezzo di governo, e non per l’inserimento del nome nel simbolo, la Meloni dice di esser sempre fiera di essere una persona del popolo. Non il simbolo elettorale, non un atto di fede cieca, dunque, come prospettato nell’articolo, ma la forza della concretezza.
    Si è consapevoli che ogni provvedimento è discutibile e migliorabile, ma non si può negare che ci sia una coerenza con il programma presentato al corpo elettorale, sia nei contenuti che nella serietà di attuazione.
    Aspettando sempre che non si strumentalizzi la democrazia, agitando lo spettro antifascista, o impedendo alle associazioni pro life di tenere un dibattito nelle Università, di scongiurare di manifestare con violenza e lancio di insulti e bottiglie la presentazione di un libro che deve essere presidiata dalle forze dell’ordine, come accaduto a Livorno, o assistere ancora ad esponenti di una certa cultura e considerati grandi intellettuali progressisti di usare frasi del tipo “tornate nelle fogne”, ovvero post di illustri registi e attori con macabre immagini di testa all’ingiù, su cui nessuno dice che si corre il pericolo di ferire la democrazia. Prodi e non solo ma ogni opinionista e tutti dovremmo dire con forza, senza se e ma, che non è con la violenza o le colonizzazioni ideologiche che si zittisce l’avversario.
    Sciascia, che certamente fascista non era, ma autentico democratico: “Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è”.
    Giudizi sui fatti di programma e valori, dunque,e non violenza preconcetta.
    Più onestà intellettuale e vera dialettica per le scelte, perché senza dialettica il pensiero muore.
    Filippo Vitrano

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