di Giuseppe Savagnone
«La liturgia natalizia contiene questi due versetti del libro della Sapienza: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte giungeva a metà del suo rapido corso, l’onnipotente tua Parola si lanciò dal cielo, dal tuo trono regale”. Queste parole parlano del mistero dell’incarnazione e il silenzio infinito, che vi opera dentro, trova in esse la più felice espressione. Le cose grandi maturano nel silenzio (…). Le forze che non fanno strepito sono quelle che realmente valgono». Questa riflessione di Romano Guardini sul senso del Natale suona oggi totalmente inattuale, di quella inattualità che è in realtà una sfida alla mentalità e al costume diffusi, perché ne rivela tutta la superficialità.
Per noi il Natale è la festa della chiassosa allegria, delle vetrine sfarzosamente illuminate, dello shopping e dei regali. Il mistero del silenzio notturno, di cui parla il testo biblico, ne è rigorosamente bandito. Non solo la Parola di Dio, ma le stesse parole umane perdono il loro significato in un incessante chiacchiericcio, di cui l’immancabile scambio degli auguri, tra persone che non ne ricordano neppure più il perché, è il tragicomico emblema.
Eppure il Natale rimane, nell’immaginario collettivo, la festa più importante dell’anno. E, per quanto misconosciuto nel suo originario significato, esso continua a costituire, in qualche modo, un richiamo, un tacito appello rivolto non soltanto ai credenti, ma ad ogni essere umano ancora capace di vigilanza e perciò in grado di provare meraviglia – come i pastori in quella notte di più di duemila anni fa – di fronte all’annuncio dell’angelo. Anzi, in un certo senso, questo angelo è la stessa ricorrenza del Natale: essa viene a scuoterci dal nostro torpore e a dirci che, nella cappa opprimente del quotidiano – con i suoi ritmi frenetici di lavoro, con i suoi altrettanto frenetici momenti di svago, con la sua corsa ai consumi, con la sua indifferenza al volto dell’altro – , ormai si è aperta una breccia, che qualcosa di nuovo è accaduto in un lontano passato e può essere ancora riscoperto e rivissuto nel presente.
Per cogliere questa novità, però, bisogna sapersi fermare e mettersi in ascolto del grande silenzio che il nostro rumore non riesce del tutto a esorcizzare e a nascondere. Il silenzio dell’anima, che sta dietro tutte le parole, e da cui esse traggono il loro vero significato; il silenzio del cosmo, con suoi spazi interstellari di milioni di anni luce e le sue galassie lanciate in questi spazi a velocità inimmaginabili; il silenzio che aleggia nelle nostre vite, e che per alcuni è quello di Dio, per altri la voce del nulla.
Questi silenzi possono essere fonte di inquietudine – è stato il cristiano Pascal a scrivere: «Il silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta» – , oppure di una immensa pace, come per l’ateo Leopardi che, ne L’infinito, parla di «profondissimi silenzi» in cui l’anima dolcemente si inabissa. Nessuna confessione religiosa, nessuna ideologia antireligiosa, può ignorarli, così come nessuna può confiscarli a proprio uso e consumo. Appartengono all’umanità degli uomini e delle donne in quanto tali.
Proprio per questo, però, è grave che credenti e non credenti sembrino oggi convergere in una triste gara al baccano e alla fuga dal mistero della vita che questi silenzi lasciano trapelare. E che la nostra sovrabbondanza di stimoli, di messaggi, di slogan pubblicitari, abbia fatto venir meno il vuoto salutare entro cui poter percepire e accogliere il volto dell’altro, soprattutto del povero – di cui è simbolo natalizio l’inerme realtà del Dio bambino nato in una stalla – , riproducendo nel nostro mondo opulento l’esclusione di allora: «per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).
Lasciamo, allora, che il Natale sia, almeno per un momento, veramente tale. Usciamo, per un breve istante, dalla sala illuminata dove si banchetta chiassosamente, e lasciamoci sfiorare il volto e il cuore dalla dolcezza della notte. Per ritrovarci, almeno per un breve istante, infinitamente soli nel silenzio che ci avvolge.
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