La grande illusione

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Foto di Mohammed Ibrahim su Unsplash

Una lunga pausa di non-guerra

Davanti agli sconfortanti scenari di guerra che ormai quotidianamente scorrono davanti ai nostri occhi, viene alla mente il famoso film girato da Jean Renoir nel 1937, intitolato «La grande illusione». Allora il regista aveva ancora solo presente il dramma della prima guerra mondiale. Avrebbe dovuto di lì a poco prendere atto quanto il mondo fosse ancora prigioniero dell’«illusione» che egli aveva denunziato.

È sembrato, dopo il 1945, che finalmente la lezione delle due grandi tragedie con cui si è aperto il secolo scorso avesse dato qualche frutto. La guerra è continuata, fra i paesi del blocco comunista e quelli occidentali, ma è almeno diventata “fredda”. A questo ha certamente contribuito l’avvento di nuove armi – prima fra tutte quella atomica -, di cui entrambi gli Stati leader dei rispettivi schieramenti, Stati Uniti e Unione Sovietica, erano in possesso e che, con la loro spaventosa potenza distruttiva, facevano prevedere, in caso di conflitto, una catastrofe planetaria, senza vinti né vincitori.

Da qui un lungo periodo di relativa pace, rotta solo, in Europa, da conflitti locali – come quelli determinati, alla fine Novecento, dalla dissoluzione della Repubblica jugoslava – e, fuori di essa, da guerre, come quelle tra Israele e gli Stati arabi, che non avevano coinvolto le grandi potenze in uno scontro frontale.

Anche le due spedizioni militari condotte, tra la fine del secolo scorso e i primi del nostro, da coalizioni guidate dagli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein – la prima motivata dall’occupazione, da parte di quest’ultimo, del Kuwait, la seconda da una pretesa minaccia (rivelatasi poi inesistente) con armi di distruzione di massa – tutto sommato non avevano determinato un clima di tensione internazionale che potesse far percepire, anche lontanamente, il pericolo di una nuova guerra mondiale.

Anche perché, con la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il blocco comunista si era ormai sfaldato, lasciando il posto a una univoca egemonia americana. I nemici naturalmente non mancavano, ma andavano cercati nelle organizzazioni terroristiche islamiche e nelle loro proliferazioni, da Al-Qāʿida all’ISIS.

L’aggressione di Putin all’Ucraina

Con la sciagurata «operazione speciale» avviata da Putin nei confronti dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, questa lunga pausa di pace – o almeno di non-guerra – , che durava dal 1945, si è bruscamene interrotta.

Ben lungi da risolversi in un conflitto locale, come forse immaginava il capo del Cremlino, l’invasione  russa – dopo l’annessione della Crimea, nel 2014 – è stata considerata dalle potenze occidentali e dai loro alleati alla stregua delle annessioni messe in atto da Hitler, alla viglia della seconda guerra mondiale e come tale è stata fronteggiata con estrema decisione, per evitare le conseguenze disastrose che un debole pacifismo aveva prodotto allora, nella Conferenza di Monaco del 1938.

Dietro impulso della NATO – un’alleanza militare sorta in funzione anti-russa alla fine della Seconda guerra mondiale e rivalutata in questa occasione – si sono messe in atto a sostegno dell’Ucraina (che pure non faceva parte dell’Alleanza atlantica) tutta una serie di misure economiche, politiche e militari contro la Russia, tanto da far parlare di una “guerra per procura”.

Tutto questo ha spaccato il pianeta – i grandi paesi del Sud globale (Cina, India, Brasile, Sudafrica) non hanno aderito né al boicottaggio né al fronte polito-militare che lo sosteneva – ma non impedito alla Russia di continuare la sua guerra e, dopo un inizio disastroso, di avere dei discreti successi.

Anche la recente invasione del territorio russo nella regione di Kursk – inizialmente salutata dai governi e dalle opinioni pubbliche occidentali come una svolta decisiva e un rovesciamento delle sorti della guerra – si rivela sempre di più una mossa efficace sul piano psicologico e propagandistico, ma di dubbia efficacia sulle sorti complessive del conflitto.

Per non dire che, stando a molti analisi militari, il “colpo di scena” voluto da Zelens’kyj (che, non dimentichiamolo è un uomo di teatro e ne ha dato prova in molte occasioni), può costare caro in termini strategici a un esercito già alle prese con una grave carenza di uomini.

La pace impossibile

Ciò rende problematica, per non dire praticamente impossibile, ogni prospettiva di exit dal conflitto. Infatti, per il premier ucraino – appoggiato in questo senza riserve dal presidente Biden e dalla maggioranza dei leader occidentali – ciò che conta è piegare la Russia sul campo di battaglia. Il problema della pace si porrà solo dopo la vittoria. L’accordo a cui Putin dovrà essere costretto non prevede un vero e proprio negoziato, se non per sancire la totale rinunzia alle conquiste russe, perfino a quella, già realizzata nel 2014, della Crimea.

È significativo che al grande vertice di pace indetto dalla Svizzera a Lucerna il 16 e il 17 giugno scorso, su iniziativa di Zelens’kyj, la Russia non sia stata nemmeno invitata, trasformando in realtà il convegno in una raccolta di adesioni alla rivendicazione ucraina della propria integrale identità territoriale.

In questa prospettiva si pone anche il recente attacco nella regione di Kursk. «L’Ucraina – scrive su X (ex Twitter) Mychajlo Podoljak, consigliere presidenziale ucraino – «non è interessata a occupare i territori russi (…). Ma se parliamo di potenziali negoziati – sottolineo potenziali – dovremo mettere la Federazione Russa al tavolo delle trattative. Alle nostre condizioni (…). Abbiamo mezzi efficaci e collaudati per costringerli. Oltre a quelli economici e diplomatici, c’è anche lo strumento militare. Dobbiamo infliggere alla Russia sconfitte tattiche significative. Nella regione di Kursk, possiamo vedere chiaramente come lo strumento militare venga oggettivamente usato per convincere la Federazione Russa a entrare in un processo negoziale equo».

Peraltro, Zelens’kyj non si stanca di ripetere agli alleati che la posta in gioco non è solo la libertà dell’Ucraina, ma quella dell’Occidente e del mondo intero.

E così del resto, la guerra è stata impostata fin dall’inizio dalla NATO, finalizzandola a dimostrare, come ha detto Biden in un discorso del 2022, «quanto la guerra di Putin abbia fatto della Russia un paria» e «isolarla dal palcoscenico internazionale». E così si è fatto (si pensi all’esclusione degli atleti russi dalla Olimpiadi e dalle Paralimpiadi, che avrebbero dovuto essere il luogo del superamento dei contrasti).

In questa logica, nessun dialogo è possibile, non solo per la volontà di Putin di perseguire fino in fondo il suo cinico progetto imperialistico, ma anche per la simmetrica indisponibilità occidentale a un dialogo che contrasterebbe con questa linea.

Col rischio sempre più reale, però, di trasformare questa, che è già una terza guerra mondiale per procura, in un conflitto diretto tra l’Occidente e la Russia. Purtroppo non è un pericolo remoto. Al punto in cui siamo, nessuno dei due contendenti può permettersi di perdere. La speranza che ci rimane è quella che la guerra duri senza fine, con i suoi spaventosi costi di vite umane e di distruzioni materiali.

Un’altra guerra infinita

C’è un’analogia tra il conflitto in Ucraina e ciò che sta accedendo nel Medio Oriente. Qui non c’è una terza guerra mondiale, nemmeno indiretta. Però anche in questo caso l’Occidente, con i suoi alleati della NATO, è fin dall’inizio schierato a fianco di Israele e gli offre il suo pieno appoggio militare, economico e politico.

Un appoggio non certo contraddetto dagli inviti alla moderazione e dalle pressioni per una tregua, rivolti a Tel Aviv dai governi occidentali, che appaiono scandalosamente inadeguati davanti alla sistematica violazione, da parte dell’esercito israeliano, di tutti i princìpi del diritto internazionale e dei diritti umani più elementari. Quando, da parte degli Stati Uniti, basterebbe – per rendere credibili queste riserve – la sospensione delle imponenti forniture di armi che continuano ad essere garantite anche mentre il segretario di Stato Blinken pressa per una tregua umanitaria.

E anche in questo caso l’ “aggredito” – che qui è Netanyahu – non vuole sentir parlare di pace se prima non ha ottenuto una vittoria totale, che in questo caso non e solo la disfatta dell’avversario, ma la sua totale distruzione. «Porremo fine alla guerra solo dopo aver raggiunto tutti gli obiettivi, compresa l’eliminazione di Hamas e il rilascio di tutti i nostri ostaggi», ha dichiarato, ancora lo scorso luglio, il premier israeliano.   

E anche lui ricorda ai suoi alleati e sostenitori che la posta in gioco del conflitto che Israele sta combattendo ha un valore universale: «Quello che sta accadendo – ha detto Netanyahu parlando al Congresso americano, da cui è stato entusiasticamente applaudito, come già era accaduto poco tempo prima con Zelens’kyj – «non è uno scontro di civiltà, ma tra barbarie e civiltà, tra coloro che glorificano la morte e coloro che glorificano la vita».

Il Bene contro il Male. In questa logica manichea, ogni concessione sarebbe un tradimento. Certo, Biden sembra colpito dalla constatazione che il Male, a differenza di quanto accade nella guerra tra Russia e Ucraina, purtroppo assume il volto di donne e bambini palestinesi massacrati a migliaia dai difensori del Bene. Ma gli scrupoli del presidente americano non lo hanno portato, in dieci messi, al punto di dissociarsi dal suo alleato israeliano.

Anche qui, però, sembra proprio che l’appoggio dovrà essere prolungato ancora per molto, forse all’infinito. La guerra a Gaza non è andata bene a Israele, che, in questi dieci mesi, non è riuscito a raggiungere nessuno dei due obiettivi che si era proposto e questo lo spinge a cercare altri teatri dove esercitare la sua assoluta superiorità militare. In questa logica si spiega l’ultimo attacco alla Cisgiordania, il cui gruppo dirigente è costituito dall’OLP, che non ha nulla a che vedere con Hamas e con la strage del 7 ottobre, e che anzi  avrebbe dovuto essere fin dall’inizio il partner su cui puntare per isolare i terroristi della Striscia.

Solo che moltiplicare la propria aggressività non solo non giova all’immagine internazionale, già ampiamente compromessa davanti all’opinione pubblica mondiale, ma suscita sempre nuovi nemici. Più diventa chiaro che il bersaglio da colpire e distruggere non è Hamas, ma i palestinesi, più Israele si troverà odiato e isolato dalla gente dei territori in cui deve pur continuare a vivere. E le bombe americane da novecento chili per questo non serviranno.

La grande illusione, in entrambe queste vicende, è credere che puntando sulla forza muscolare delle armi – con i soldi degli alleati (che siamo  sempre noi occidentali) – si risolveranno i problemi. I fatti dicono il contrario. Forse sarebbe il momento che anche i nostri governi ne prendessero atto e che, invece di continuare a giurare incrollabile sostegno a Kiev e a Tel Aviv, cominciassero finalmente a chiedersi cosa fare concretamente per arrivare alla pace senza aspettare la fantomatica vittoria totale.

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