La “vita associativa” delle aggregazioni ecclesiali nel prisma dell’Evangelii gaudium

Loading

Foto da Flickr

Premessa

Il tempo complesso che sta attraversando l’associazionismo cattolico, anche confermato da numerosi studi di Sociologia della Religione (come quelli di Roberto Cipriani e Franco Garelli), non deve indurre alla lamentela, al pessimismo o allo scoraggiamento. Tuttavia, esso non deve essere sottovalutato e richiede di essere, ancora una volta, analizzato. Non è certo questa la sede per farlo. Con queste poche pagine, invece, si intende cogliere, dalla sempre attuale Evangelii gaudium di papa Francesco (da ora, EG), talune preziose indicazioni che sembrano segnare una cornice entro la quale può essere oggi sperimentata l’ordinarietà della “vita associativa”, spesso faticosa e irta di ostacoli, delle aggregazioni ecclesiali.

Nel “cambiamento d’epoca” (come lo ha definito il Pontefice) al quale stiamo assistendo, si è dell’idea che il laicato associato e la Chiesa intera siano chiamati a compiere importanti scelte. Queste ultime non possono che muovere da un attento discernimento su ciò che è essenziale, al fine di concentrarsi su quest’ultimo e tralasciare il superfluo. Non è, infatti, il momento di “imbarcarsi” in numerose iniziative pastorali che, seppur lodevoli, non sempre hanno successo a causa della complessità della vita di chi dovrebbe organizzarle e di chi dovrebbe esserne il destinatario.

L’Esortazione apostolica ora richiamata, pertanto, può indicare una strada da percorrere, offrendo spunti preziosi che qui si vogliono condividere.

Taluni suggerimenti pratici di Evangelii gaudium

Occorre partire dal presupposto che professare la fede in modo associato rimane una preziosa via di evangelizzazione e di partecipazione responsabile – in forma solidale – “alla vita e alla missione della Chiesa” (Christifideles laici 29, ma v. anche EG 29) per la salvezza propria e per quella altrui, costituendo al tempo stesso un mezzo di contrasto all’individualismo (cfr. EG 67) e al clericalismo (cfr. EG 102), purché non divenga occasione di mondanità spirituale da parte dei singoli (EG 93 ss.). Peraltro, come si sa, “nessuno si salva da solo” (EG 113). A ciò si aggiunga che “è nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si rivela autenticamente e misteriosamente fecondo” (EG 130).

A quest’ultimo proposito e in via preliminare, è possibile precisare che la prima azione concreta che le singole realtà sono chiamate a porre in essere è proprio quella di riscoperta del carisma che sta alla base dell’identità associativa. A quest’ultima, infatti, occorre rimanere fedeli pur con gli opportuni adattamenti e aggiustamenti che impone l’epoca in cui si opera. Ciò non significa certamente, come si dirà a breve, chiudersi in se stessi, ma mettere a disposizione di tutti, per l’“utilità comune” (1Cor 12, 4-11), quel carisma.

Ecco perché uno degli impegni imprescindibili che associazioni e movimenti devono provare a mettere in campo non può che essere volto a contrastare la “logica del si è fatto sempre così”, della quale discorre l’Esortazione apostolica in parola (al n. 33); ciò, però, comporta la capacità di “essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi di evangelizzazione delle proprie comunità” (ancora, EG 33; cfr. anche EG 129). Appare infatti necessario e urgente aprirsi alla novità (ed anche a chi di tale novità è portatore), non certo per rinnegare quanto è stato fatto in passato, ma per aggiornare le dinamiche associative ai tempi che si vivono. D’altra parte, “ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre ‘nuova’” (EG 11). Quanto detto, però, non deve consentire che l’aspetto meramente “amministrativo” venga prima di quello pastorale (cfr. EG 63).

Urge, quindi, un’attenta lettura dei “segni dei tempi” (cfr. EG 51), che favorisca un proficuo discernimento, una verifica dello stile associativo, una sorta di “esame di coscienza” dal quale nessuno può tirarsi indietro. Ciò appare prezioso per sapere cogliere la realtà e misurare l’attività che si svolge con i bisogni, ma anche con i limiti e le opportunità di questo tempo. D’altra parte, i cristiani sono chiamati a vivere una fede “incarnata”, che non può essere “intimista” (cfr. EG 233, 262) ma che deve essere pienamente immersa nella complessità della “ferialità”, proprio perché i cristiani, pur non essendo del mondo, sono nel mondo (cfr. Lettera a Diogneto).

Occorre, infatti, ricordarsi che “la realtà è superiore all’idea” (EG 231). Questa consapevolezza, a volte un po’ amara, deve spronare i laici associati ad abbandonare certe idee, a prima vista interessanti e considerate “vincenti”, per fare i conti con il contesto “spaziale” e “temporale” in cui operano. Molte volte, infatti, con “maturità laicale”, è opportuno non ostinarsi a voler perseguire a tutti i costi taluni progetti per il perseguimento dei quali non si hanno le forze necessarie. Non deve apparire una sconfitta la scelta (spesso, obbligata) di dover fare un’attenta cernita delle iniziative da proporre. D’altra parte, prima di costruire una torre non si deve forse calcolare se si hanno i “mezzi per portarla a termine”? (cfr. Lc 14, 28-33).

La capacità di lettura della realtà diventa infatti preziosa al fine di non dare risposte “a domande che nessuno si pone” (EG 155). Purtroppo, invece, a volte, l’impressione che si ha è che si giri “a vuoto”, si lavori tanto ma siano scarsi i risultati e sia venuto meno l’appeal verso l’associazionismo (sul punto, si tornerà). Probabilmente, però, il problema è a monte, in quanto non si ha la capacità di intercettare le reali domande dell’uomo e della donna di oggi ed invece è necessario farlo, perché solo così è possibile provare a fornire le risposte che davvero interessano, andando incontro a quella esistenziale ricerca di Dio che – anche inconsapevolmente –  accomuna gli esseri umani (o la maggior parte di essi). 

Non c’è dubbio, poi, che la “vita associativa” debba rifuggire l’autoreferenzialità. Aprirsi agli altri (cfr. EG 91 s.), in spirito di comunione, con buona capacità di ascolto e con la voglia di collaborare fraternamente, appare fondamentale. Essere Chiesa “in uscita” (EG 20 ss.), infatti, implica anche la disponibilità ad abbandonare, quando occorre, le personali originarie determinazioni, lasciandosi interpellare dai punti di vista altrui, spesso diversi dal proprio.

Quanto ora detto richiede al laicato di raffinarsi nell’arte del dialogo (cfr. EG 74, ma anche 238 ss.), sia al proprio interno sia con coloro che professano un’altra fede (EG 250 ss.), con gli atei e gli agnostici e, in generale, con associazioni non ecclesiali (cfr. EG 257). Ciò richiede, necessariamente, la buona volontà di abbandonare forme di rigidità, assumendo una capacità di mediazione, non scevra dalla parresìa.

È necessario, pertanto, sperimentare l’arte dell’inclusività e dell’accoglienza, nella consapevolezza che “la gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno” (EG 23). Occorre, infatti, non cadere nella tentazione dei gruppi “chiusi” (come tali, respingenti), ai quali è difficile accedere.

La “vita associativa”, infatti, deve essere scandita dal “ritmo salutare della prossimità” (EG 169), affinché gli aderenti siano veri “compagni di strada” di chi incontrano sul proprio cammino (cfr. EG 171 ss.).    

Peraltro, a fronte della intrinseca “dimensione sociale dell’evangelizzazione” (EG 176 ss.), è opportuno prendere in considerazione l’impegno socio-politico (v., spec., EG 205), quale modalità operativa al servizio degli altri e, quindi, del bene comune. La “preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale” (EG 201) non può che accomunare tutti i fedeli laici, sia a livello individuale che collettivo (e, quindi, anche, associato). Per Francesco, è infatti “importante che le aggregazioni ecclesiali partecipino al dibattito pubblico ossia si “inseri[scano] a fondo nella società” (EG 269).

Per realizzare quanto si sta dicendo, occorre però una “creatività missionaria” (EG 28), che è una particolare modalità di esercizio della carità, unitamente ad una vitale voglia di lasciare qualcosa di buono dopo il proprio passaggio sulla terra (EG 183).

La missionarietà, nei modi adeguati al tempo, rimane l’urgenza delle aggregazioni ecclesiali e della Chiesa intera (e quindi anche delle parrocchie) (cfr. EG 15). Essa costituisce quell’essenziale, al quale si accennava poco sopra e a cui si deve tendere (cfr. EG 35).

Al tempo stesso, però, non si può fare a meno di rilevare come sia necessario recuperare il primato dell’aspetto prettamente spirituale, da curare attentamente (cfr. EG 262) anche praticando la la missionarietà (cfr. EG 272); in molti casi, infatti, come osserva Francesco, le attività (poche o tante che siano) vengono “vissute male” proprio per carenza di quella spiritualità che deve starne alla base (cfr. EG 82).

 Infine, non si può trascurare l’importanza della formazione, che deve costituire specifico ambito di impegno per le aggregazioni ed esigenza alla quale la gerarchia ecclesiastica dovrebbe tenere in modo particolare, sostenendo quelle esperienze associative che già si spendono in tal senso (senza, chiaramente, disinteressarsi delle altre). Infatti, “la formazione dei laici e l’evangelizzazione delle categorie professionali e intellettuali rappresentano un’importante sfida pastorale” (EG 102, ma cfr. anche 121, 160).

In conclusione

Con molta probabilità, l’associazionismo cattolico è in crisi (o, comunque, è in difficoltà) perché non è più “contagioso” eppure la Chiesa cresce (o dovrebbe crescere) “per attrazione” (EG 14). A questo proposito, dovremmo chiederci se siamo (e siamo stati) in grado di coinvolgere chi ci osserva da “fuori”. Come si sa, “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, […] o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”, come disse profeticamente Paolo VI (Evangelii nuntiandi, 41). La buona testimonianza, peraltro, è la migliore modalità di promozione associativa.

Non si può sottovalutare la triste conflittualità (anche) interna che a volte si scorge nelle aggregazioni e che si traduce in una “contro-testimonianza”. Sebbene, come rileva il Santo Padre, il conflitto sia da accogliere e da accettare (in quanto tipico di ogni realtà umana), al tempo stesso, esso non può intrappolare (cfr. EG 226), ma deve divenire un “anello di collegamento di un nuovo processo” (EG 227) attraverso una “comunione nelle differenze” (EG 228). Viene alla mente la “convivialità delle differenze” della quale parlava don Tonino Bello nonché la celebre frase che Giovanni XXIII pronunciò la sera prima dell’apertura del Concilio, quando esortò a considerare ciò che avrebbe unito anziché quanto avrebbe diviso (disse: “cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà”).

Come disse R.A. Livatino, alla fine della nostra vita “nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”; noi lo siamo? La nostra credibilità, in estrema sintesi, si fonda sull’Amore che saremo riusciti a donare e a donarci reciprocamente (il richiamo, com’è ovvio, è a s. Giovanni della Croce).

Inoltre, in un’epoca nella quale siamo abituati ad avere tutto e subito, è necessario coltivare la pazienza del seminatore che sa che i frutti del lavoro svolto, con molta probabilità, saranno raccolti a distanza di tempo o da altri (cfr. EG 82 e 223). Infatti, anche tra tante difficoltà, occorre nutrire la certezza che “nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto” (EG 276).

In adempimento alla vocazione laicale (cfr. EG 85), alla paura della sconfitta – che è spesso presente ed immobilizza – occorre rispondere con l’impegno, ossia con una “dedizione creativa e generosa” (EG 279) che sia volta ad “iniziare processi” e non a “possedere spazi” (EG 223) per ricoprire ruoli.

Prima di concludere, sia consentita una notazione: qualcuno avrà notato che non è stato mai usato il termine “sinodalità”, non solo perché in Evangelii gaudium ad esso non si dà particolare risalto, ma anche perché tale parola è fin troppo declamata e non altrettanto praticata. Fermo restando che la Chiesa o è sinodale oppure manca di un suo elemento costitutivo, sembra in questa sede preferibile parlare di “comunione” (cfr. EG 23, 28, 31, ma passim); quest’ultima, fondata sulla corresponsabilità di laici, pastori e religiosi, deve connotare il modo di essere e di operare della Chiesa. Solo così è possibile, davvero, “camminare insieme”; anche al riguardo, però, pare che la strada da percorrere sia ancora tanta.

In definitiva, nella “vita associativa” di oggi non mancano le difficoltà e le sfide che occorre fronteggiare (cfr. EG 75), ma papa Francesco ci invita a non darci “per vinti” (EG 3) e ci ricorda che “le sfide esistono per essere superate” (EG 109).     

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *