Il caso Ruffini e il ritorno dei cattolici sulla scena politica

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Un servitore del bene comune

Alla fine Ernesto Maria Ruffini si è dimesso da direttore dell’Agenzia delle Entrate.  Di lui, fino a poco tempo fa quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico, si parlava molto da giorni sui quotidiani come dell’“uomo nuovo” di cui, secondo alcuni, l’opposizione avrebbe bisogno per superare la sua attuale frammentazione, che le rende impossibile costituire una concreta alternativa all’attuale governo.

Era anche indicato come l’uomo adatto, per la sua storia personale di credente, a far ritornare i cattolici protagonisti della vita politica, dopo una lunga eclisse.

All’origine di queste voci, sempre più insistenti, c’era sicuramente la stima di cui Ruffini gode, un po’ in tutti gli schieramenti politici, per il suo eccellente lavoro nell’Agenzia e che spiega perché sia stato confermato nel suo delicato ruolo da ben quattro governi, di tutti i colori, compreso quello attuale.

Grazie a lui l’Agenzia delle Entrate ha reso più razionali e funzionali i suoi servizi ai cittadini, anche ricorrendo a un ampio uso della digitalizzazione. E in questo modo ha potuto combattere, molto più efficacemente che in passato, la piaga cronica dell’evasione fiscale, raggiungendo nel 2023 il traguardo record un recupero di oltre 31 miliardi di euro.

Al di là dei risultati concreti, però, è significativa la logica secondo cui Ruffini ha concepito e impostato la sua ardua opera, nel quadro di una visione più ampia, esposta nel suo recente libro «Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 ad oggi», con una prefazione del presidente Mattarella.

Per Ruffini «le tasse, belle o brutte che siano, sono il mezzo più onesto e trasparente che abbiamo per contribuire al bene comune del nostro paese, di tutti noi». In un’Italia che vede aumentare sempre più il divario tra una minoranza di ricchi sempre più ricchi e una maggioranza di poveri sempre più poveri, le imposte sono il modo per combattere questa perversa polarizzazione e redistribuire le risorse, così da non vanificare l’art. 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge».  

In conflitto con il governo

Una logica che non può certo essere condivisa dai partiti di destra oggi al governo, il cui comune modello è quell’acerrimo nemico delle tasse che è stato Silvio Berlusconi, secondo cui esse costituiscono un illegittimo «mettere le mani nelle tasche degli italiani». 

In questa prospettiva si capiscono le reiterate campagne di Matteo Salvini per promuovere forme di “pace fiscale” che in sostanza si riducono a condonare agli evasori la maggior parte di quello che devono alla comunità e che altri (soprattutto i lavoratori con stipendio fisso), al posto loro, sono obbligati a  pagare, rendendo così il carico fiscale veramente esorbitante.

Ed è nel più puro spirito berlusconiano che il nostro vice-premier, qualche tempo fa, ha usato parole durissime contro l’ufficio dello Stato di cui egli dovrebbe essere istituzionalmente il primo sostenitore: «Ci sono milioni di italiani ostaggio dell’Agenzia delle Entrate».  

È stata l’unica volta che Ruffini ha sentito la necessità di fare un intervento pubblico: «Il contrasto all’evasione», ha risposto al ministro, «non è volontà di perseguitare qualcuno, l’Agenzia è un’amministrazione dello Stato, non un’entità belligerante.

È un fatto di giustizia nei confronti di tutti coloro che le tasse, anno dopo anno, le pagano, e le hanno pagate, sempre fino all’ultimo centesimo, anche a costo di sacrifici e nonostante l’innegabile elevata pressione fiscale, e di coloro che hanno bisogno del sostegno dello Stato, erogato attraverso i servizi pubblici con le risorse finanziarie recuperate».

E ora l’ormai ex direttore si è riferito a questo episodio per spiegare le sue dimissioni: «Non mi era mai capitato», ha detto in un’intervista al “Corriere della Sera”,  «di vedere pubblici funzionari essere additati come estorsori di un pizzo di Stato. Oppure di sentir dire che l’Agenzia delle Entrate tiene in ostaggio le famiglie, come fosse un sequestratore».

E ha ribadito il suo punto di vista: «Attenzione però: se il fisco in sé è demonizzato, si colpisce il cuore dello Stato (…). Personalmente ho sempre pensato che a danneggiare i cittadini onesti siano gli evasori»

La mancata “discesa in campo”

Ruffini ha anche precisato, contestualmente, di non avere nessuna intenzione di “scendere in campo”. Un’ipotesi gravata da troppe incognite, in realtà, per essere realistica. Qualcuno lo voleva federatore dei partiti di centro –  ma né Renzi né Calenda erano disposti a farsi da parte; qualcun altro evocava addirittura l’esempio di Prodi, che aveva  unito i partiti di centro-sinistra, per applicarlo all’attuale situazione del “campo largo”. 

Ma c’era chi si chiedeva se esistano, oggi, le condizioni che allora consentirono questa esperienza e  metteva in guardia dal rischio di voler riprodurre uno schema ormai inattuale.

Ora la decisa presa di posizione di Ruffini – peraltro già anticipata nel suo intervento in un convegno di qualche giorno fa – elimina questi dubbi e dissipa questi equivoci spiegando le motivazioni che la ispirano: «Fatico a pensare che per cambiare le cose bastino i singoli. Per natura tendo più a credere nella forza delle persone che collaborano per un progetto comune. Affidarsi a sedicenti salvatori della Patria non è un buon affare.

Dovremmo smetterla di considerare la politica come una partita a scacchi o un gioco di potere, perché dovrebbe essere un percorso fatto di discussioni, grandi ideali, progetti, coinvolgimento. Non un talent show culinario per selezionare uno chef in grado di mescolare un po’ di ingredienti, nella speranza che il piatto finale sia buono. Altrimenti si alimenta il distacco dei cittadini dalla politica. E si costruisce un futuro peggiore».

Parole che suonano incredibili – e probabilmente resteranno incomprensibili – in uno scenario politico che vede dominare logiche del tutto diverse, sia nel governo che nell’opposizione.

Il risveglio di cui il mondo cattolico ha bisogno

Eppure, paradossalmente, proprio con questa rinunzia a fare la politica nel modo che gli veniva chiesto, Ruffini  ha in realtà indicato la via  per farla in un altro modo, completamente diverso. E, forse contro le sue intenzioni,  questo lo rende il migliore candidato ad animare e promuovere il ritorno dei cattolici alla politica.

Perché essi non sono certo assenti nella nostra società per mancanza di forze, come dimostra  la loro incidenza nella sfera propriamente sociale, che li vede protagonisti del terzo settore. Se sono diventati irrilevanti in quella politica, dove, dopo essere stati per quarant’anni al governo del paese con la Dc, è perché non hanno avuto la capacità di elaborare quel «progetto comune» di cui ha parlato Ruffini e sono stati risucchiati da due poli – di destra e di sinistra – che non rispecchiano in alcun modo l’insegnamento sociale cristiano a cui essi si ispirano.

Così si sono trovati all’interno di un PD che, malgrado fosse nato con l’ambizione di unire cattolici e socialisti, sembra ormai essersi concentrato sulle battaglie per una libertà che ricorda molto quella dell’individualismo possessivo radical-liberale (altro che sinistra!), lasciando in secondo piano i diritti (e i doveri) sociali.

Oppure hanno finito per sostenere una destra che, ad ogni pie’ sospinto, si dichiara «cristiana» e che combatte, è vero, contro  il «diritto di aborto» e la maternità surrogata, ma che non conosce la dimensione della solidarietà, né all’interno dello Stato (vedi legge sull’autonomia differenziata, fortemente criticata dai vescovi italiani), né verso i poveri del mondo (vedi politica di «difesa dei confini»  contro i migranti, agli antipodi dei reiterati appelli di papa Francesco alla solidarietà). 

Per non parlare della sostanziale solidarietà del nostro governo con quello israeliano, davanti alle stragi di inermi civili palestinesi (anche in questo caso in chiaro contrasto con la posizione del papa).

Questo vale anche per l’ala più moderata, della destra, Forza Italia, il cui segretario, Tajani, recentemente ha detto di considerarsi erede di Alcide De Gasperi. Una dichiarazione che non può non fare rabbrividire chi ricorda la figura del grande politico cristiano (di cui oggi è in corso il processo di beatificazione), nel vederla accaparrata da un partito che  si ispira a un personaggio come Silvio Berlusconi – agli antipodi di De Gasperi, nel pensiero e nell’esempio, – di cui ancora nelle ultime elezioni europee ha messo il nome sui suoi manifesti.

È in questo vuoto che si è manifestata, nella Settimana sociale di Trieste del luglio scorso, l’esigenza di riscoprire, al di là delle  divisioni, una identità cattolica trasversale ai partiti. 

Non per formare un terzo polo, ma per rimettere all’ordine del giorno della politica idee della dottrina sociale  cristiana come “bene comune” e “solidarietà”, scomparse dal vocabolario sia della destra che della sinistra.

Su questa base potranno in futuro nascere degli sviluppi che coinvolgano anche i partiti. Ma questo richiede un pensiero, un progetto. Sono le idee che prima di tutto sono mancate in questi anni al mondo cattolico, ed è in questa direzione che lo stesso Ruffini ha mostrato di voler lavorare.

Non si tratta, ovviamente, di creare un “pensatoio” di intellettuali. Nella sua intervista il direttore dimissionario ha definito la politica  «un’avventura collettiva fondata su rispetto, dialogo e soprattutto partecipazione» .

È a questo che bisogna rieducare una base cattolica che attualmente troppo spesso si limita a frequentare le parrocchie per “consumare” – individualisticamente – sacramenti e  appena fuori dalle mura del tempio, ignora l’appello dei papi a considerare la politica «la forma più alta di carità». . 

È urgente, dunque, ricominciare a creare occasioni di riflessione, confronto e partecipazione che da tempo sono venute meno. In questo impegno collettivo  può essere prezioso il ruolo dell’associazionismo cattolico. Su questa base anche molti, che credenti non sono, sarebbero probabilmente interessati a dare il loro contributo.

Questa – ha ragione Ruffini – è sola via per una reale svolta. Non le operazioni di palazzo in cui lo si voleva coinvolgere, offrendogli posti di  potere. E noi gli siamo grati di avere non solo detto, ma testimoniato con il suo gesto coraggioso, ciò di cui non solo  i cattolici, ma l’Italia, oggi, ha estremo bisogno.

2 replies on “Il caso Ruffini e il ritorno dei cattolici sulla scena politica”

  • Apprezzo molto il giovane Ruffini peraltro, e mi consta personalmente, molto devoto alla memoria del prozio, ma ho seri dubbi sulla possibilità che i cattolici possano tornare ad essere protagonisti della vita pubblica in Italia. La decisione, che mi permetto di definire irresponsabile, del gennaio del ’94 di mettere fine alla storia democristiana – una storia che secondo l’insegnamento degasperiano non ha mancato mai di combinare motivazioni ideali e realismo politico – ha infatti finito per renderne assolutamente irrilevante, e non mi riferisco solo al potere decisionale, la presenza nello spazio pubblico.

  • Credo che la missionarieta’ cristiana, coinvolga anche la sfera politica, e che è necessario che ognuno di noi prenda seriamente in conto la necessità di scendere in campo da parte dei cattolici.La loro assenza ha creato un vuoto culturale, e l’assenza di una politica che ponga l’uomo al centro

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