Il ciclone Trump
« L’età dell’oro dell’America inizia proprio ora. A partire da oggi, il nostro Paese rifiorirà e sarà nuovamente rispettato in tutto il mondo. Saremo l’invidia di ogni nazione e non permetteremo più di essere sfruttati. Per ogni singolo giorno dell’amministrazione Trump, metterò semplicemente l’America al primo posto. Riconquisteremo la nostra sovranità. Ripristineremo la nostra sicurezza. Riporteremo in equilibrio la bilancia della giustizia (…). Presto l’America sarà più grande, più forte e molto più eccezionale di quanto non sia mai stata prima».
Con queste parole iniziava il discorso pronunziato da Donald Trump nella cerimonia del suo insediamento alla Casa Bianca. E i più di cento decreti esecutivi firmati lo stesso giorno ha confermato che il nuovo presidente degli Stati Uniti intende realizzare senza indugi ciò che aveva promesso nella sua campagna elettorale. Il punto centrale di questo programma è: «L’America al primo posto».
Cardine di questo progetto è la rivoluzione del rapporto con gli immigrati. Uno dei decreti blocca l’ingresso di tutti i richiedenti asilo al confine e un altro abolisce lo “ius soli” – finora vigente ed espressamente previsto, peraltro, dalla Costituzione degli Stati Uniti – , che prevedeva l’attribuzione della cittadinanza ai bambini nati su suolo americano da migranti senza permesso di soggiorno.
Quanto a quelli che sono già dentro, la prospettiva è la promessa fatta da Trump in campagna elettorale: «Per tenere al sicuro le nostre famiglie prometto la più grande deportazione della storia del nostro paese». Un’operazione di che caccerà via 11 milioni di immigrati irregolari.
Un secondo punto centrale del progetto di Trump è l’autonomia dai vincoli di organismi internazionali che possono porre dei limiti alla piena sovranità del governo americano. In particolare da quegli organismi che rappresentano istanze proposte dalla scienza ufficiale, come quelle ecologiste.
Da qui il decreto che sancisce il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima e altri che da un lato allentano i limiti alle trivellazioni e all’estrazione mineraria, dall’altro eliminano alcuni incentivi economici alla produzione di energia rinnovabile (nonché alla produzione e vendita di auto elettriche).
Da qui anche il decreto che segna l’uscita degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in linea, del resto, con la nomina a ministro della Salute americana di Robert Kennedy, acceso no-vax, nomina che, in una lettera inviata al Senato, settantasette premi Nobel avevano definito «un rischio per la salute pubblica».
Un altro punto chiave della visione trumpiana è la lotta contro le tasse. In questo primo giorno di presidenza, il Tycoon ha cominciato cancellando la Global Minimum Tax, l’imposta del 15% per le aziende con almeno 750 milioni di dollari di fatturato, istituita dall’OCSE due anni fa allo scopo redistribuire almeno un minimo della ricchezza senza frontiere delle multinazionali
Nel suo discorso Trump parlava anche del proposito di «riportare in equilibrio la bilancia della giustizia». Sulla linea dei suoi continui contrasti con la magistratura americana (che lo aveva anche da poco condannato per ben 34 reati), con uno dei nuovi decreti il presidente ha graziato più di 1.500 persone che erano state arrestate per l’assalto al palazzo del Congresso del 6 gennaio del 2021, quando migliaia di suoi sostenitori cercarono con la forza di bloccare la proclamazione di Joe Biden come nuovo presidente.
Per rendere grande l’America è sembrato opportuno a Trump anche firmare un ordine esecutivo in cui si stabilisce che esistono solo due generi, quello maschile e quello femminile, eliminando a livello federale i cosiddetti programmi di diversità, equità e inclusione (sintetizzati con l’acronimo inglese “DEI”), che erano stati introdotti per tutelare i gruppi minoritari nelle procedure di assunzione e nella formazione.
Per quanto riguarda la politica estera, il nuovo presidente ha confermato la sua linea decisamente filo-israeliana, bloccando con un altro decreto i finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che opera in Palestina per alleviare il disastro umanitario in corso, e annullando le sanzioni che l’amministrazione Biden aveva imposto verso alcuni coloni israeliani protagonisti di violenze in Cisgiordania. Secondo «Times of Israel», nel togliere le sanzioni Trump ha assecondato le esplicite richieste di Netanyahu.
Infine, come promesso ha anche ordinato il cambio del nome del Golfo del Messico in “Golfo d’America”.
Un’imbarazzante analogia
Quello che Trump senza remore sta presentando al mondo è la forma più pura del sovranismo. Per quanto siano apparse impressionanti, le sue prese di posizione non fanno altro che evidenziare gli esiti inevitabili impliciti in questa prospettiva politica e culturale e che finora spesso sono stati lasciati in ombra dai suoi sostenitori. A cominciare dai partiti che oggi si trovano al governo nel nostro paese, il cui programma ha le stesse radici di quello trumpiano, anche se alcuni punti sono presentati con maggiore cautela.
«Per l’Italia», si intitolava il programma elettorale con cui la destra è salita al potere. E il primo punto era: «Politica estera incentrata sulla tutela dell’interesse nazionale e la difesa della Patria». I patti internazionali non venivano rotti, però sottolineando continuamente questo primato dell’Italia.
Questo è quanto ha promesso dalla Meloni: «Siamo pronti a ridare all’Italia il prestigio e l’autorevolezza che merita. La nostra Nazione deve tornare a pensare in grande». Tutto il resto viene dopo, in funzione di questo obiettivo. Esattamente ciò che Trump si propone per gli Stati Uniti. Così come è lo stesso il meccanismo logico: si svaluta ciò che è stato fatto dai predecessori, enfatizzando il declino e la marginalità del proprio paese, per ingigantire i possibili risultati della propria gestione.
Analoga anche l’agenda per realizzare questo progetto di grandezza. In primo piano anche in Italia è stata e continua ad essere la strenua lotta contro l’immigrazione. Da qui la normativa che ha reso sempre più problematico lo sforzo delle navi delle ONG per salvare i migranti che naufragano nelle acque del Mediterraneo.
Da qui l’ostinata sordità alle voci che dal mondo imprenditoriale e dalle stesse istituzioni pubbliche sottolineano il ruolo indispensabile dell’immigrazione per la prosperità del nostro paese. Come quella del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che, in un’intervista rilasciata l’aprile scorso a «La Stampa», spiegava che, con l’attuale andamento demografico, dopo il 2040 non si potranno più pagare le pensioni e indicava come unica soluzione l’apertura all’ingresso degli stranieri: «Le economie ricche», spiegava il presidente dell’INPS, «hanno tutte molti migranti».
In questa logica si colloca anche la decisione di spendere circa 800 milioni di euro (stima de «Il sole 24ore») in cinque anni per creare i centri di permanenza in vista dell’eventuale rimpatrio sul territorio albanese, invece che su quello italiano, dove ovviamente i costi sarebbero stati immensamente inferiori.
Si collega alla lotta contro l’immigrazione la recentissima liberazione di un generale libico, notoriamente responsabile delle torture vero i migranti, ignorando il mandato d’arresto della stessa Corte penale internazionale, e confermando così la logica degli accordi per cui l’Italia finanzia e sostiene i lager disumani dove i libici detengono quanti vorrebbero partire per il nostro paese. Col risultato, certo, di consentire al nostro governo di vantarsi dei risultati ottenuti nella riduzione degli sbarchi, senza però spiegare a che prezzo.
Altra evidente analogia, la demonizzazione delle tasse, assimilate dalla nostra premier al «pizzo» che l’analogia impone egli onesti commercianti, fino alla più recente accusa del vice-premier Salvini, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, di «tenere in ostaggio» gli italiani.
Per non parlare dell’eterna battaglia contro la magistratura, accusata di sabotare l’zione del governo in base ad ideologie politiche.
Per non parlare della politica filo-israeliana, che ha portato il nostro governo a disconoscere addirittura i mandati d’arresto emessi dalla Corte penale internazionale contro Netanyahu.
Un interrogativo
E del resto se il solo vero criterio è l’interesse del proprio Stato – o, meglio, il modo in cui Trump e Meloni interpretano questo interesse per il loro – , è chiaro che non ci sono più valori a cui appellarsi, neppure quello della più elementare umanità, per opporsi a questi comportamenti.
Finora la nostra premier ha cercato disperatamente di mascherare queste logiche conseguenze del suo sovranismo, sostenendo la piena compatibilità della sua politica con la democrazia e con il rispetto dei valori umani e arrivando perfino a rivendicare l’ispirazione cristiana della sua politica.
Ora però la brutale franchezza del progetto sovranista di Trump – che di umanità e di cristianesimo non prova neppure a parlare – svela crudamente ciò che Meloni pudicamente cercava di nascondere.
A evidenziare ulteriormente il problema è il feeling che si è creato tra i due leader. La nostra premer è stata l’unica ad essere invitata, tra quelli europei, all’insediamento del nuovo presidente, che ad ogni occasione riconosce la profonda sintonia che li lega, pur sottolineando la subordinazione della sua alleata (che, in occasione della cerimonia, non è stata neppure ammessa un colloquio personale, come sperava)
Il legame è, appunto, il sovranismo. Non a caso tutti gli altri invitati erano i leder delle destre europee. A differenza di questi, però, Meloni governa uno Stato. Ed è forse è venuta l’ora, per i cittadini italiani, di chiedersi se vogliono che il nostro paese riproduca, nel ruolo di vassallo, il modello dell’America di Trump. E se il vero prestigio dell’Italia può consistere nell’essere al servizio della potenza illimitata degli Stati Uniti.
Ricordo che la tradizione, costituzionalizzata, dello ius soli negli USA è un retaggio di un’America, territorio in gran parte spopolato che aveva bisogno di essere popolato. Oggi gli USA hanno una popolazione sufficiente che, caso unico per l’Occidente, per di più è in crescita. Indubbiamente, la nostra cultura si scontra con la visione Trumpiana, le espulsioni indiscriminate e il modo in cui sono fatte ci indignano. Questo tuttavia non significa che il “problema” dell’immigrazione non esista, e non sia anche grave, e che debba essere affrontato con serena razionalità senza palpiti emotivi, a prescindere cioè da cattivismo e buonismo.
Prescindendo anche da bene e male?