di Giuseppe Savagnone
L’orrore del terrorismo dilaga oltrepassando i confini degli Stati e dei continenti. La condanna, da parte della comunità internazionale, è unanime. Come è unanime l’indignazione dell’opinione pubblica di fronte allo spettacolo agghiacciante di vittime innocenti, massacrate mentre si trovano in un luogo di culto a pregare, o si concedono una vacanza turistica, o semplicemente sono al mercato per la spesa giornaliera.
Meno diffusa, invece, è la riflessione sulla portata e il significato del fenomeno. E questo è grave, perché aumenta considerevolmente la distanza tra la sua denunzia e l’impegno concreto per combatterlo. Per questo vale la pena di provare a capirci un po’ di più, nella consapevolezza che le reazioni puramente emotive, se non sono accompagnate dalla lucidità dell’analisi, finiscono per essere non un vero antidoto, ma solo un alibi, rispetto al male che le provoca.
Fino a poco tempo fa, la distinzione tra guerra e terrorismo era netta. A fare le guerre erano gli Stati, mentre a promuovere il terrorismo erano gruppi più o meno clandestini e comunque non ufficialmente riconosciuti a livello internazionale. La guerra era regolamentata, perciò, da regole precise – per esempio riguardo al trattamento dei prigionieri – che potevano essere violate, ovviamente, ma non senza che lo Stato responsabile della violazione ne pagasse le conseguenze, se non altro a livello di immagine. Il terrorismo, invece, non ha regole. La guerra prevedeva che vi fosse un corpo di combattenti distinto dai civili e a cui era richiesto di tenere questi ultimi al di fuori del teatro di operazioni e di proteggerli, mentre il terrorismo può servirsi in qualunque momento di chiunque, perché arruola uomini, donne e, recentemente, perfino bambini, come autori delle sue azioni violente. Soprattutto, però, le guerre miravano a sconfiggere l’esercito nemico, colpendone i combattenti e distruggendone le istallazioni militari, mentre il terrorismo ha come bersaglio la popolazione, con lo scopo non di indebolire il potenziale bellico del nemico, ma di creare un clima di paura che ne scuota il morale.
Questi criteri sono saltati già durante la seconda guerra mondiale, con il crescente coinvolgimento della popolazione civile nel ruolo di combattente – si pensi ai partigiani – e soprattutto nel ruolo di bersaglio deliberatamente colpito per piegare la resistenza psicologica del nemico. Il bombardamento di Dresda, che costò decine di migliaia di vittime tra la popolazione, e le bombe di Hiroshima e Nagasaki, volte a costringere il governo giapponese a rinunziare ad un’ultima resistenza militare, quali che siano le eventuali motivazioni per giustificarli, sono sicuramente atti che cancellano la differenza tra guerra e terrorismo.
E’ stato solo l’inizio. Da allora sempre più frequentemente Stati ufficialmente riconosciuti e in larga misura rispettati dalla comunità internazionale hanno cominciato a produrre e a utilizzare in guerra armi la cui specifica destinazione non è di colpire l’apparato bellico nemico, ma in primo luogo gli abitanti. L’esempio più chiaro sono le mine anti-uomo, ordigni di piccole dimensioni, ideati per essere disseminati sul territorio, inadatti a intaccare le corazze dei tanks, ma in grado di far saltare in aria, uccidendolo o storpiandolo gravemente, il singolo che andando a coltivare il suo campo o percorrendo una strada, vi metta inavvertitamente sopra un piede. Possono avere formati diversi. Una, tremenda, è la sovietica Pfm-1, chiamata anche “mina a farfalla”, per la forma caratteristica, molto attraente per i bambini che la scambiano per un giocattolo e ne vengono investiti restando mutilati agli arti o ciechi.
Le mine hanno ucciso o mutilato 100mila persone, quasi tutti civili, negli ultimi 15 anni; 3.679 nel solo 2014. Sono sistemi micidiali, dalla letalità permanente. Hanno una longevità di decine di anni. Bonificarle costa. Chiede un’infinità di tempo, perché le tecnologie laser e nucleari non sono ancora del tutto mature. Quando va bene, si riesce a bonificare non più di 15-20 metri quadrati al giorno. E i costi lievitano: per ogni euro speso in un campo minato ne occorrono 20 volte tanto nell’opera di sminamento.
Nel 1999 è entrato in vigore un trattato, firmato a Ottawa da un certo numero di paesi, che bandiva la mine anti-uomo. Ad oggi, oltre 160 paesi, tra cui l’Italia, l’hanno ratificato, assumendo l’impegno di interromperne la produzione, l’uso e l’esportazione, nonché di distruggere tutte quelle esistenti nei rispettivi arsenali. Ma tra questi non ci sono ancora i grandi produttori di mine: la Cina, la Russia, gli Stati Uniti, Israele e le due Coree. Gli interessi in gioco sono enormi. Recentemente la campagna Stop explosive investments, partita nel 2009, ha portato alla luce il fatto che 151 istituti finanziari nel mondo, dal 2011 al 2014, hanno investito circa 27 miliardi di dollari in compagnie produttrici di questi strumenti di morte.
Tutto questo non diminuisce di un millimetro la gravità di altre forme altrettanto spaventose di terrorismo, come quelle praticate dall’Isis che, peraltro, fa abbondantemente ricorso anche alle mine anti-uomo. Con la notazione che il sedicente Califfato non ha industrie in grado di produrre mine anti-uomo, quindi se le usa è perché qualcuno gliele vende!
Combattiamo dunque il terrorismo in tutte le sue forme. Anche in quelle meno evidenti agli occhi dell’opinione pubblica. Stronchiamone le radici colpendo, come chiede da tempo con insistenza papa Francesco, la produzione il traffico su scala mondiale delle armi, cominciando da quelle che sono destinate innanzi tutto a colpire gli innocenti civili. Almeno su questo dovremmo essere tutti d’accordo. Anche chi invoca la legittimità, in casi estremi, di una “guerra giusta”, non può non riconoscere che non può esistere alcun “terrorismo giusto”. Da qualunque parte venga praticato.
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