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L’utero in affitto promuove i diritti?

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di Giuseppe Savagnone   

 

Recentemente i cattolici del PD, attirandosi l’accusa di essere integralisti, hanno proposto un emendamento al ddl Cirinnà che estende il divieto dell’“utero in affitto” anche nei casi in cui vi si faccia ricorso all’estero. Attualmente, infatti, questa pratica è proibita in Italia, ma ci sono alcune coppie che la utilizzano in paesi dove essa invece è ammessa dalla legge. Questo vale già nei confronti delle unioni eterosessuali. Acquista però una particolare  rilevanza nel caso di coppie gay, per le quali l’unico modo di avere figli – trattandosi di due persone di sesso maschile – è di passare attraverso la mediazione di una  donna, di cui la cosiddetta «maternità surrogata» è una possibile modalità. Il ddl Cirinnà non ne parla, ma neppure la esclude, suscitando il sospetto che in realtà si voglia preparare il terreno per la sua legittimazione.

 

   Non è un dubbio campato per aria. Già sul piano educativo è in atto un’offensiva culturale, volta a far accettare questa logica fin dalla più tenera età. In una storia illustrata, pubblicata da una casa editrice specializzata, «Lo Stampatello», per la scuola primaria, si racconta che «Franco e Tommaso si amavano: volevano fare una famiglia e fare dei bambini. Ma per fare un bimbo ci vogliono un maschio e una femmina: la donna ha l’ovino nella pancia e l’uomo mette il semino. Franco e Tommaso erano due uomini, avevano solo semini. Mancava l’ovino e non potevano neanche farlo crescere nella loro pancia! (…). In America le donne possono decidere di far crescere nella loro pancia quei bimbi che altrimenti non riuscirebbero a nascere! Lo fanno perché pensano che sia meraviglioso avere dei figli e vogliono aiutare chi non può farli. E perché pensano che sia bellissimo permettere a un bimbo di nascere in una famiglia che lo aspetta».

 

   Come valutare questa idilliaca descrizione alla luce della realtà? Leggo un articolo (R. Staglianò, Gli italiani che vanno in Ucraina a cercare un utero in affitto), sul sito dell’associazione radicale «Luca Coscioni», la cui sintesi di apertura suona: «Ucraina. Viaggio nella nuova frontiera della maternità. Nell’Est, dove si può trovare una donna che porterà avanti una gravidanza altrui “ospitando” seme e ovulo. II tutto per 20-40 mila euro. Illegale? In Italia sì, ma solo in teoria».

 

   Colpisce intanto il costo di una simile operazione, riservata, ovviamente, solo ai ricchi. Nel testo dell’articolo si fa questa considerazione: «Le donne del mondo industrializzato vogliono un figlio che possono permettersi economicamente, ma non fisicamente. Le “donatrici” indiane, brasiliane, dell’Est Europa hanno lombi fecondi e non un euro in tasca. Che domanda e offerta finissero per incontrarsi secondo logiche globalizzate era fatale».  È la legge del mercato capitalistico.

 

   Qualcuno  potrebbe pensare che un’eventuale legalizzazione, esonerando dalle spese di viaggio, ridurrebbe il prezzo. Ma non è così. Sempre l’articolo dell’associazione «Coscioni» spiega che negli Stati Uniti, dove la maternità surrogata è del tutto legale e dove «dal ’76 a oggi, calcola l’Organization of Parents Through Surrogacy, sono venuti al mondo così circa 28 mila bambini (…), i costi variano dai 30 ai 60 mila dollari, tutto compreso. Più che in Ucraina».

 

   E poi c’è l’aspetto umano. L’articolo sopra citato spiega che la donna che presta il proprio utero deve prima firmare un contratto.  «Nel contratto c’è scritto che la giovane si impegna a disconoscere il figlio biologico appena partorito e che sul certificato saranno indicati solo i nomi del padre genetico e della moglie».

 

   Nel racconto sopra citato si dice che da Nancy, una delle donne che vogliono far crescere nella loro pancia i bimbi altrui, è nata Lia. In questo modo, «Lia ha due papà: nessuno dei due l’ha portata nella pancia ma entrambi, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori. Nancy ha permesso ai genitori di Lia di farla nascere ma non è la sua mamma». Un modo gentile ed edulcorato per dire che è stata solo uno strumento, come lo sarebbe un’incubatrice.

 

   Di fronte a queste ipocrisie, gabellate per una conquista di civiltà («in Italia siamo in ritardo rispetto agli altri paesi!», si sente ripetere ossessivamente), acquista un singolare significato il coraggioso appello di «Se non ora quando», un associazione di femministe delle più diverse matrici religiose e politiche, intitolato «No all’utero in affitto!». Riproduco qui l’articolo di Annalisa Cuzzocrea, su «Repubblica» del  4 dicembre 2015,  dove se ne riferisce il tenore: «Un appello contro la pratica dell’ utero in affitto. La richiesta all’ Europa di metterla al bando. Il desiderio di rompere quello che viene definito “un silenzio conformista su qualcosa che ci riguarda da vicino”. A promuoverlo sono le donne di Senonoraquando libere. A firmare, un mondo vasto che va dal cinema alla letteratura, dal campo universitario a quello delle associazioni per i diritti». Ed ecco il testo: «Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore. In Italia è vietata, ma (…) “committenti” italiani possono trovare in altri Paesi una donna che “porti” un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione». L’articolo continua citando la regista Cristina Comencini: «Una madre non è un forno. Abbiamo sempre detto che il rapporto tra il bambino e la mamma è una relazione che si crea. Concepire che il diritto di avere un figlio possa portarti all’ uso del corpo di donne che spesso non hanno i mezzi, che per questo vendono i loro bambini, riconduce la donna e la maternità a un rapporto non culturale, non profondo». E Fabrizia Giuliani, docente di filosofia del linguaggio e deputata del Pd: «Il tempo di gestazione non è un tempo meccanico, quel bambino non è un oggetto, quella donna non è solo un corpo, perché il nostro corpo siamo noi».

 

   Nella prolusione tenuta il 25 gennaio scorso davanti al consiglio permanente della Cei il cardinale Bagnasco  ha detto qualcosa di simile quando ha affermato che i figli «non sono mai un diritto, poiché non sono cose da produrre». «Immediata la replica di Franco Grillini, presidente di Gaynet Italia: “Bizzarro il capo dei vescovi, da un lato si lamenta che in Italia non si fanno figli, poi quando qualcuno li fa, come le coppie gay, lancia strali perché non gli piace il modo come sono venuti al mondo. Riteniamo che qualsiasi bambino venuto al mondo meriti rispetto e non debba essere discriminato”» (M. Iervasi, “I figli non sono un diritto”, in «L’Unità» del 26 gennaio 2016). Fermiamoci un momento a considerare queste opposte posizioni e poi chiediamoci: quale delle due promuove i diritti?

 

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