di Luciano Sesta
In alcuni nostri precedenti interventi su “Tuttavia”, abbiamo avuto modo di denunciare i toni aspramente polemici e il dibattito impedito che, in Italia, si sta svolgendo sul ddl Cirinnà. Il testo che qui pubblichiamo si pone, con tono più ragionato, sul binario di questo dibattito. Al documento, che ci è stato segnalato da Augusto Cavadi e che è stato condiviso da Girolamo Lo Verso, Vittorio Lingiardi, Massimo Ammaniti, Paolo Valerio e Sergio Salvatore, facciamo seguire alcune osservazioni.
“I firmatari sono professori ordinari senior dell’area della psicologia clinica e dinamica, con competenze professionali in ambito psicoterapeutico e/o psicoanalitico e/o psichiatrico. Da molti anni, inoltre, approfondiscono temi che collegano le problematiche psichiche con quelle sociali.
In merito alla questione delle adozioni da parte di genitori dello stesso sesso confermiamo quanto già sottolineato dal collega Ammaniti in un’intervista pubblicata su “La Repubblica” del 4 febbraio. Esiste, a livello internazionale, un’ampia quantità di ricerche che documenta come non siano rilevabili differenze nello sviluppo psicologico e relazionale di bimbi cresciuti in famiglie con genitori etero o omosessuali. La salute psichica del bambino dipende da amore intelligente, cura, educazione e capacità di svolgere quelle funzioni tradizionalmente definite “materne” e “paterne”. Del resto, sempre più spesso la ricerca parla dei genitori come “caregivers”, cioè figure in grado di rispondere ai bisogni del/la bambino/a e di fornire le cure adeguate. Così come da decenni l’O.M.S. ha dichiarato che l’omosessualità non è una malattia. Mentre, aggiungeremmo, l’omofobia è un bel problema psicologico. Oltretutto, spesso, violento e distruttivo (gli omosessuali sono il massimo negativo per le mafie ed erano nei lager). La conoscenza scientifica è necessaria prima di lanciarsi in affermazioni sull’argomento. Per entrare nel merito del dibattito in corso aggiungiamo che qualunque provvedimento faciliti la vita di qualcuno e non danneggi la vita di altri è utile e sano. Con ciò non intendiamo contrapporci, ma aprire un dialogo con quella parte del mondo cattolico che ancora crede che esista un unico tipo di famiglia e vede con preoccupazione il riconoscimento giuridico di famiglie con genitori dello stesso sesso. Apprezziamo d’altro canto l’evoluzione di quella parte del mondo cattolico che inizia a parlare di famiglia antropologica e non più naturale”.
Gli estensori, come si può notare, dichiarano, apprezzabilmente, di voler aprire un dialogo con quella parte della società civile che “vede con preoccupazione” le rivendicazioni delle coppie omosessuali in materia di adozione. Nel documento non si fa riferimento né al cosiddetto “stepchild adoption” – che prevede l’adozione, da parte di uno dei due partner, del figlio naturale dell’altro – né alla pratica dell’“utero in affitto”, che, come si è recentemente sottolineato anche al Family Day, sarebbe favorita sottobanco dallo stesso ddl Cirinnà, che pure formalmente la esclude. Ciò che nel documento si difende, più in generale, è la plausibilità dell’adozione da parte delle coppie omosessuali. Gli argomenti utilizzati, a tal proposito, si riferiscono a ricerche scientifiche che, “a livello internazionale”, dimostrerebbero che non vi è alcuna sostanziale differenza, in termini di equilibrio psicologico e armonia della crescita, fra bambini accuditi da coppie eterosessuali e bambini cresciuti da coppie omosessuali.
Già questa affermazione, però, suscita alcune perplessità. Sempre a “livello internazionale”, infatti, come può scoprire chiunque digiti le parole chiave su un qualunque motore di ricerca, esistono ricerche scientifiche di segno opposto, in cui si mostrano i problemi che affliggono i bambini cresciuti con coppie omosessuali. Senza considerare che il campione di coppie omogenitoriali sottoposte a studio è, in misura notevole, quantitativamente più ristretto e storicamente più recente di quello ricavato da coppie eterosessuali “tradizionali”. Questa sproporzione condiziona il senso del confronto statistico, da cui emergerà, per esempio, che l’incidenza di problemi psicologici in bambini cresciuti in famiglie tradizionali è superiore a quello di bambini cresciuti in famiglie omosessuali, senza che tuttavia esistano criteri che consentano di stabilire che i problemi dei primi sono dovuti all’eterosessualità dei genitori, mentre la riuscita dei secondi alla loro omosessualità. Affinché, in caso di dubbio, tali ricerche possano suffragare la plausibilità di una legge che autorizza una determinata pratica che coinvolge il diritto dei minori, bisognerebbe perciò mostrare che l’eventuale “riuscita” di un bambino adottato da una coppia gay sia tale non nonostante o a prescindere dall’omosessualità dei suoi genitori, ma proprio grazie ad essa.
Ora, una ricerca scientifica è affidabile quando produce risultati che non sono influenzati, sin dall’inizio, dal desiderio di giustificare una certa pratica piuttosto che un’altra. Siamo sicuri che le ricerche sull’equivalenza fra coppie gay ed eterosessuali in tema di adozione godano di questa libertà? La trionfalistica evidenza scientifica di questa presunta equivalenza fa nascere più di un sospetto al riguardo, come se i casi riportati fossero accuratamente selezionati sulla base della loro idoneità a confermare, piuttosto che a smentire, l’ipotesi di partenza. Se così non fosse verrebbero citati anche alcuni casi negativi, benché minoritari. E invece questi non vengono quasi mai menzionati, come ci si aspetterebbe in qualunque ricerca statistica che riguarda scienze umane come la psicologia, la sociologia e la psicanalisi. Va detto, inoltre, che queste ricerche, a livello internazionale, esistono da quando esiste il problema politico di legittimare le adozioni gay, aumentando il sospetto che siano condotte non con atteggiamento di disinteressata apertura scientifica a qualunque esito dell’indagine, ma con il preciso scopo di confermare la posizione politica in nome della quale sono state avviate e, forse, persino finanziate. È vero che a ciò si potrebbe replicare facendo notare che se non vi fosse una cultura contraria all’adozione gay, non vi sarebbero nemmeno studi scientifici finalizzati a dimostrarne l’equivalenza con l’adozione tradizionale. Ma così si finisce per rassegnarsi a un uso politico della scienza, che perde in tal modo quella stessa autorevolezza che avrebbe dovuto legittimarne la capacità di orientare le decisioni del legislatore in un senso piuttosto che in un altro.
Quanto detto non implica privare di valore scientifico le statistiche menzionate nel documento, i cui autori, peraltro, sono personalità autorevoli del mondo scientifico. Di tali statistiche, piuttosto, si tratta di ridimensionare la pretesa di rappresentare un argomento decisivo per risolvere il problema delle adozioni gay. Sarebbe ingenuo pensare che in qualche dato scientifico si trovi la risposta agli interrogativi che agitano in questi giorni le coscienze. L’impressione, infatti, è che in questo dibattito le ricerche scientifiche siano piegate da una parte e dall’altra. Così, a invocare fiduciosamente la scienza per dotare di autorevolezza la propria posizione sono sia i promotori del diritto all’adozione gay, sia i loro più accesi avversari, che insistono piuttosto su un’ormai lunga tradizione, anche psicanalitica, in cui si enfatizza l’importanza di avere figure genitoriali di sesso diverso. A questo proposito, i sostenitori della famiglia “naturale” o “tradizionale”, e troppo spesso in questi giorni, cadono nel medesimo errore di selezionare ad hoc i casi oggetto di studio, concentrandosi solo sugli episodi negativi taciuti dai loro avversari, quasi che crescere con due genitori dello stesso sesso sia la peggiore sciagura, oltre che una condanna a un’infelicità certa e permanente. Nella loro accesa battaglia, entrambi gli schieramenti finiscono così per condividere la medesima (e ingenua) convinzione che la scienza sia neutrale e disinteressata, e che dunque occorra rivolgersi ad essa per sapere come le cose stanno “oggettivamente”, al di là delle opinioni personali di chi discute su problemi moralmente controversi come quelli delle adozioni gay.
In realtà la scienza è una conoscenza indispensabile ma condizionata da interessi e da obiettivi pratici. Ed è su questi interessi e su questi obiettivi che occorre discutere liberamente, senza che nessuna voce venga messa a tacere come “non scientifica”, come quando si dice, per esempio, che una posizione non disposta ad assecondare una richiesta delle comunità LGBT è “omofoba”, ossia frutto di una paura irrazionale e non di una posizione etica che ha diritto di cittadinanza in uno stato laico e pluralistico. Gli estensori del documento ricordano, giustamente, che ormai da tanti anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) non considera più l’omosessualità come una “malattia”. Poi però essi, confidando di nuovo un po’ troppo sul potere di arbitraggio della scienza, aggiungono che è l’“omofobia”, piuttosto, a essere «un bel problema psicologico». È ormai evidente che l’“omofobia”, attribuita a un interlocutore o a un pensiero, non indica più una posizione discutibile e sbagliata, ma una diagnosi clinica. In questo modo, però, la parola “omofobo” si carica di quegli stessi difetti che possedeva la parola “malato” attribuita a omosessuale. Se in passato a doversi curare era l’omosessuale, ora sono i critici del ddl Cirinnà. Chi continua a reagire all’accusa di omofobia considerando “malati” gli omosessuali non fa altro che alimentare questa continua fuga dal merito dei problemi. In entrambi i casi, servendosi surrettiziamente dell’autorevolezza della scienza, si medicalizza la posizione dell’interlocutore, squalificandola in partenza e così risparmiandosi la fatica di un confronto critico. Insomma, se è vero, come si afferma nel documento, che «La conoscenza scientifica è necessaria prima di lanciarsi in affermazioni sull’argomento», è anche vero che tale conoscenza non è sufficiente, e sarebbe bene evitare di assolutizzarla a scopi retorici per screditare posizioni che si ritengono politicamene scomode.
Diagnosi cliniche e statistiche sono importanti per conoscere meglio il fenomeno, ma servono poco quando si tratta di legiferare, e dunque di fare appello anche a principi e valori, non solo a fatti descrivibili scientificamente. E qui gli estensori del documento esprimono una loro posizione: «La salute psichica del bambino dipende da amore intelligente, cura, educazione e capacità di svolgere quelle funzioni tradizionalmente definite “materne” e “paterne”». Si tratta di un passaggio condivisibile. Meno condivisibile, ci sembra, è la disinvoltura con cui lo si invoca per giustificare la pari idoneità fra coppie gay e coppie eterosessuali in tema di adozione. Si dice spesso, infatti, che poiché ci sono già tanti bambini che vivono con figure parentali dello stesso sesso, non si vede perché la legge non dovrebbe consentire le adozioni gay. La risposta, in realtà, è semplice. Una legge regolamenta un fenomeno non solo per legittimarlo e favorirlo così com’è, ma anche per orientarlo verso ciò che si ritiene migliore per chi ne è coinvolto. E se è vero che le “funzioni” materna e paterna possono essere svolte, a beneficio dei bambini, anche da due uomini e da due donne, è anche vero che è preferibile, potendo decidere sin dall’inizio, che esse siano incarnate da un uomo e da una donna. In caso contrario sarebbe come se dicessimo che, per alcuni bambini, è per legge, e non semplicemente per caso, che debbano avere una madre e una zia piuttosto che una madre e un padre. Questo sì, sarebbe discriminare ingiustamente i bambini. Il paragone con le situazioni di fatto da cui la legge dovrebbe trarre ispirazione mostra qui tutti i suoi limiti: il legislatore non può impedire che un bambino sia privato di una o di entrambe le figure genitoriali (come nei casi di morte, abbandono o separazione), ma può evitare di elevare a norma questa privazione. E ciò, va ribadito, non significa affatto che un bambino non possa crescere meglio in una famiglia omoparentale piuttosto che in una famiglia “naturale” e “tradizionale”. Questo, in realtà, non può saperlo nessuno. Ma poiché qui si tratta non di casi singoli di cui il legislatore sarebbe chiamato a profetizzare il futuro, ma di una norma che deve valere in generale per tutti i possibili bambini che potrebbero essere adottati, la legge è chiamata a stabilire qual è, sin dall’inizio, la condizione oggettivamente preferibile per i bambini, anche se poi, di fatto, potrebbe risultare soggettivamente non ottimale.
Un’ultima obiezione potrebbe essere la seguente: ma nel caso in cui i bambini abbiano come unica alternativa un orfanotrofio o un solo genitore, non sarebbe meglio lasciarli adottare da una coppia gay o dal compagno omosessuale del genitore, come prevede la stepchild adoption? La risposta è: non lo sappiamo, forse sì, forse no. Nel dubbio, pertanto, sarebbe bene evitare crociate e attenersi a un laico rispetto di entrambe le posizioni in campo. Senza gridare a un’apocalisse imminente nel caso in cui la legge consentisse le adozioni gay, né a un’epidemia di omofobia nel caso in cui le vietasse.
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