A proposito della quantità di superficie pittorica dedicata al buio piuttosto che alla luce, allo “scuro” piuttosto che al “chiaro”, tra i tanti dipinti che evidenziano la predilezione di alcuni pittori per una buona dose di oscurità sulla tela, me ne vengono subito in mente tre:
A.La Vocazione di San Matteo, olio su tela, realizzato da Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio tra il 1599 ed il(322 x 340 cm);
B.La morte di Marat, olio su tela, realizzato nel 1793 dal francese Jacques-Louis David (165 x 125 cm);
C. Il 3 maggio 1808 (conosciuto anche come Los fucilamientos de la montaña del Príncipe Pío, e Los fucilamientos del tres de mayo), olio su tela realizzato da Francisco Goya nel 1814 (266 x 345 cm).
Nei 3 dipinti, circa metà della tela è occupata da tenebre incombenti, dense di nero, verde, marrone ed apporti minori; oscurità che è anche vuoto, cioè assenza dei personaggi le cui vicende si concentrano nella parte inferiore del dipinto. Il significato dell’ombra nei 3 casi, però, non può essere più diverso e lo scopriamo indagandone l’elemento opposto, la luce.
Nella tela di Caravaggio, la luce tagliente squarcia l’ombra entrando da destra, secondo la direzione indicata dal braccio di Gesù e rinforzata dal gesto del personaggio al centro della tavola, illuminando tutti i personaggi. L’autore ci tiene a evidenziare il fatto che il fascio luminoso non è naturale e lo fa ponendo al buio la finestra sullo sfondo: la luce è la Grazia divina che richiama i peccatori, la luce è Dio stesso che sta alle spalle del Cristo – come già nella Trinità di Masaccio – ed agisce tramite Suo Figlio.
La questione più volte dibattuta circa l’identificazione di Matteo nel personaggio che si è accorto dell’entrata di Gesù o in quello ancora chino a contare i soldi, si inserisce nel discorso: la Grazia è diretta a tutti (persino agli uomini della peccaminosa Roma seicentesca!), ma la risposta all’invito del Cristo nel sollevarsi dalle preoccupazioni terrene può essere immediata o attardata dalla elaborazione della libera scelta (http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/caravaggio-chi-e-il-vero-matteo.aspx). Cionondimeno, il buio delle tenebre quotidiane è stato rotto, tocca a noi decidere se seguire o meno la luce.
Il dipinto che raffigura Jean-Paul Marat, intellettuale rivoluzionario, amico di David ed assassinato da Charlotte Corday a tradimento, ha una buona metà della tela luttuosamente oscura. La luce che illumina la figura viene da fuori campo, ma è una luce naturale, quasi come se la Corday, dopo il gesto efferato, avesse dimenticato di chiudere la porta della stanza dove Marat curava la sua dermatite con bagni frequenti. L’evento è tutto lì. Dell’influenza caravaggesca rimane sì il braccio inerme ed abbandonato (simile a quello della Deposizione dell’autore milanese), ma la “santificazione” del grande uomo non rinvia ad alcuna speranza di salvezza ultraterrena.
La perdita è tutta umana. Ma il lutto non oscura la volontà di ricordare il personaggio storico, non c’è disperazione nel quadro perché Marat rimarrà nella storia degli uomini: David mostra la vittima quasi sorridente, con un’espressione composta come quella di una statua greca. D’altra parte, il pittore crede negli ideali illuministi che lui e l’amico hanno condiviso e ci crederà fino alla morte, che affronterà da esule pur di non piegarsi al restaurato potere monarchico francese. La fede è laica, ma ugualmente vigorosa.
Anche Goya è un fervente illuminista: la luce nel suo dipinto proviene dalla lampada (“lume della ragione”) che illumina la scena notturna e si riflette sulla camicia bianca di un condannato a morte.
L’episodio storico segue la battaglia del 2 maggio (pure raffigurata dal pittore spagnolo in un altro dipinto): le truppe napoleoniche, entrate a Madrid, fucilano gli spagnoli catturati. La mente lucida dell’autore mostra, però, i limiti della sua stessa fede: la ragione non riesce a controllare la ferocia che può essere dei gesti umani.
La terribile scena è solo un istante in un inarrestabile processo di morte illustrato dalla sequenza di piani: i morti stesi nel sangue in 1° piano, i prossimi fucilati nel 2°, coloro che seguiranno nel 3°.
Di fronte a loro il plotone fatto da uomini senza volto (senza umanità), che quasi come macchine uccidono a ripetizione. Sul fondo, nel buio che è sonno, distacco e indifferenza, sta la città; anche se la lampada-ragione mostra spietatamente la scena all’osservatore, essa non riesce a raggiungere quelli che non vogliono vedere, cioè la città dormiente, ma anche gli stessi condannati che, di fronte l’atroce spettacolo, si coprono gli occhi con le mani.
L’equilibrio tra luce ed ombra, tra fede (nella Ragione o in Dio) e perdizione è lì lì per essere infranto, ma a vantaggio di quale dei 2 elementi? In ogni caso, quando il “chiaroscuro” diviene “tenebroso” c’è sempre l’indizio di una perdita, sia essa l’assenza di Dio (prima che Questi Ti venga nuovamente a cercare), la morte naturale di un grande uomo o il dubbio che incrina la speranza nelle possibilità umane. Quanto questa perdita sia già vicina e intimamente lacerante dipende poi dall’artista e, spesso, dal suo vissuto storico. Ciò che colpisce rimane il fatto che i grandi lavori d’arte del passato siano capaci di trasmetterci tutte queste personali tribolazioni in modo così potente ancor oggi.
Valeria Viola
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