Dopo anni di stop a causa della pandemia, le élites del World Economic Forum hanno ripreso ad incontrarsi a Davos per discutere di quelli che, dal loro punto di vista, sono i maggiori problemi sociali ed economici. Tra le varie proposte, pensate naturalmente per “migliorare la condizione del mondo”, non poco scalpore ha suscitato quella di Julie Inman Grant, commissario per l’e-Safety, secondo la quale occorrerebbe “ricalibrare la libertà di parola” e addirittura i diritti umani in modo da liberarsi dalla violenza on line.
Una simile affermazione merita più di una riflessione. Iniziamo dicendo che la libertà di pensiero e di parola è uno dei diritti fondamentali, sanciti all’art. 21 della nostra Costituzione e come tale costituisce uno dei pilastri fondamentali su cui si basa la nostra democrazia.
Il pluralismo democratico può essere garantito solo se ognuno ha la possibilità accedere ai mezzi di informazione, di formarsi così un proprio pensiero e di poterlo esprimere liberamente. A tal fine, i Padri costituenti hanno inteso garantire ampia tutela alla libertà di stampa, introducendo una riserva di legge assoluta che esclude ogni possibilità di autorizzazione preventiva e di censura successiva.
Ciò nonostante, in questi ultimi anni abbiamo assistito ad una significativa limitazione della libertà di espressione. Mi riferisco alla capitolazione dei social media, in particolare di Facebook, in tema di censura. Dopo lunghe tergiversazioni Zuckerberg si è infatti piegato alla richiesta del Governo americano di introdurre un controllo ed una selezione del materiale pubblicato nel suo social.
Inutile dire che ciò ha comportato una scelta di campo sui contenuti da considerare leciti o meno. Si è trattato di una svolta che per tutti gli utenti critici e non allineati al pensiero dominante, ha avuto ripercussioni ben precise: rimozione dei post, account con limitazioni, se non addirittura cancellati, attacchi violenti ai loro post, quasi mai rimossi.
Di contro, la maggioranza degli utenti ha dormito sonni tranquilli, giungendo persino a plaudire dinanzi a questa sempre più pressante censura. Per comprenderne appieno le ragioni, occorre dire che il pericolo della diffusione incontrollata di notizie infondate viene percepita, da una buona parte dei cittadini, come uno dei primi ostacoli per una corretta informazione. L’enorme ricchezza della rete, se da un lato, infatti, offre un potenziale infinito di conoscenza, dall’altro comporta uno sforzo significativo di ricerca, di selezione, di valutazione delle notizie.
Ciò determina, molto spesso, un senso di disorientamento e incapacità nel lettore che, ben presto, si trova a dover fare i conti con i limiti della propria disponibilità di tempo, delle proprie competenze, della mancanza di un metodo di ricerca, insomma con tutte quelle variabili che possono indurlo a decidere ragionevolmente di delegare almeno una parte della propria responsabilità a professionisti, veri o sedicenti, dell’informazione.
L’affidamento a fact chackers che promettono il controllo della “verità”, appare particolarmente provvidenziale riguardo quelle notizie dal forte impatto emotivo, spesso oggetto di contrasti nella società. Queste, in sintesi, sono le motivazioni che possono portare ad acconsentire, più o meno tacitamente, a nuove forme di censura da parte di poteri occulti che, molto spesso, non si limitano a dare caccia alle bufale, ma si spingono sino alla rimozione di tutte quelle opinioni minoritarie che, dal loro punto di vista, avrebbero superato il limite di guardia.
Se infatti, da un lato, appaiono comprensibili tutte le difficoltà del cittadino del web, dall’altro non possiamo non scorgere il pericolo che – in un ambito privo di regole e controlli come la Rete – questa selezione delle notizie miri, più che a garantire verità, a tutelare gli interessi di quei gruppi di potere dominanti che, per difendere le posizioni acquisite, hanno proprio l’interesse a limitare la libertà di parola e la di circolazione delle informazioni a loro contrarie.
Il tema della libertà di parola per lungo tempo è stato impropriamente assimilato a quello della tolleranza, quasi come se il problema fosse quello di riuscire a tollerare le altrui opinioni con spirito di sopportazione. Si tratta tuttavia di un approccio riduttivo e fuorviante, in quanto impedisce di riconoscere le idee dell’altro come una risorsa.
Come è noto, infatti, solo dal libero confronto tra punti di vista diversi, può nascere una condivisione positiva e costruttiva del pensiero, capace di generare nuove idee e di contribuire così al progresso dell’umanità. Del resto, appare evidente che fuori da questa visione, tutta la tematica del rispetto delle diversità e della valorizzazione delle differenze, su cui oggi tanto si insiste, non può che suonare come mera retorica.
Come è possibile, infatti, prendere sul serio il rispetto delle diversità e il valore dell’integrazione nelle sue più svariate forme, se non si riesce nemmeno a garantire il libero confronto fra idee diverse, se non si riesce a riconoscere nell’opinione altrui un potenziale nella ricerca della verità? E ancora, come è possibile impedire che le opinioni di minoranza vengano stigmatizzate, se non garantendo a tutti indistintamente la libertà di pensiero e di parola?
Le cose oggi purtroppo non sembrano andare in questa direzione. Troppo spesso la questione della ricerca della verità sembra risolversi in una caccia alle bufale che, di fatto, ha spazzato via tutti quegli ingredienti che hanno sempre fatto parte di un’autentica ricerca di verità: lo studio, la centralità del dialogo, l’onestà intellettuale, la forza delle argomentazioni, la maieutica di un incontro vero fra esseri umani. Più che di un cammino di ricerca, la verità oggi si è ridotta ad una realtà preconfezionata dai cosiddetti professionisti dell’informazione, i soli capaci di legittimare i detentori di verità che meritano l’esercizio del diritto di parola.
La libertà di espressione cessa così di essere un diritto garantito erga omnes, per divenire un diritto subordinato ad autorizzazione e soggetto a censura. Ora, al di là della questione di incostituzionalità, dobbiamo porci due domande. Pensiamo davvero che solo una persona detentrice di verità, o presunta tale, possa legittimamente esprimersi? Chi stabilisce cosa debba considerarsi vero e cosa debba considerarsi falso?
A ben vedere, infatti, l’espressione del pensiero non dovrebbe avere nulla a che fare con il possesso della verità, ma al contrario dovrebbe costituire un passaggio fondamentale della sua ricerca. Non a caso il nostro ordinamento giuridico non prevede il divieto di esprimere false credenze o convinzioni erronee e infondate, a meno che non si configuri un reato – come nel caso in cui si leda il diritto alla riservatezza, all’onore e alla reputazione – il cui accertamento però spetta unicamente all’autorità giudiziaria.
A questo proposito, chiediamoci quante di quelle convinzioni considerate erronee nel passato, sono poi diventate verità nel presente! Ecco perché il nostro sistema giuridico è del tutto disinteressato alla ricerca di bufale, e viceversa molto attento a garantire il diritto di ognuno di formarsi una propria opinione attraverso una corretta informazione. Non a caso lo stesso art. 21 Cost. pone l’accento sulla trasparenza delle fonti di finanziamento, mettendo il cittadino al riparo dall’eventuale manipolazione delle notizie da parte di poteri economici forti.
Così se, ad esempio, un giornale riceve fonti di finanziamento da un partito politico, questo deve essere reso noto a tutti, in modo tale che si sappia in che direzione va quell’informazione. Alla luce di queste considerazioni, sarebbe dunque il caso di “ricalibrare” piuttosto la proposta della commissaria Grant che, a nostro avviso, dovrebbe anzi preoccuparsi delle forti limitazioni odierne alla libertà di parola. Non a caso l’ultimo report del World Press Freedom Index pone l’Italia al 58° posto, dopo Gambia e Suriname, nella graduatoria della libertà di stampa.
Si tratta di un report realizzato grazie ad interviste rilasciate in forma anonima da giornalisti che hanno dichiarato di subire una forte spinta a conformarsi alla linea editoriale e che hanno individuato nella grave crisi economica generata dal Covid, la causa della dipendenza dei media dagli introiti pubblicitari e dai sussidi statali.
Oggi occorre dunque, più che mai, rilanciare la cultura della ricerca della verità, liberando soprattutto le nuove generazioni dall’ossessione del giudizio dei professionisti delle bufale, i quali ammettono solo verità preconfezionate che, di fatto, sono di ostacolo alla libera comunicazione dei pensieri. Occorre tornare all’idea che non esistono detentori di verità assolute e che è solo attraverso lo scambio di libere opinioni che si può cercare la verità. Occorre comprendere che non può esserci nessun autentico rispetto della diversità, se non riusciamo innanzitutto a rispettare e a difendere il diritto di pensarla diversamente, facendo memoria delle parole della celebre biografa di Voltaire, Evelyn Beatrice Hall:” I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it”.
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