di Stefania Macaluso
Platone, nell’opera di carattere politico La Repubblica, descrivendo l’utopica organizzazione di uno Stato in cui ciascuno contribuisce a realizzare la giustizia, sotto il controllo dei governanti-filosofi, pone la domanda su chi controlla che i preposti al governo della città realizzino il bene comune e non piuttosto il proprio. La risposta del filosofo è che, in virtù della loro formazione, i custodi sono in grado di custodire se stessi. La loro natura razionale educata alla saggezza, li guida a condurre il loro governo “per la felicità di tutti”. Dunque, nello Stato ideale, la garanzia del buon funzionamento della comunità è fondata sullo stretto nesso tra sistema educativo e sistema politico.
Parafrasando Platone, la domanda che ci incalza, di fronte all’attuale spettacolo offertoci dalla politica, è: “chi educa i politici?”. Nel nostro Paese, per qualunque attività si voglia svolgere, si esige una qualifica, o almeno un’adeguata competenza. Non c’è invece nessun obbligo formativo per chi intraprende la carriera politica, e così capita di ritrovare, anche tra chi riveste alti ruoli politici, personaggi assolutamente sprovvisti di elementare istruzione sui metodi, i mezzi e le finalità della difficile arte di governare, o persino privi di senso dello Stato, cioè di quella imprescindibile probità etica che conduce a riconoscere, nelle organizzazioni istituzionali, i mezzi per realizzare il bene della collettività, da anteporre al bene personale. Da alcuni anni sono nate numerose, e probabilmente qualificate, scuole di formazione politica, ma si tratta di percorsi opzionali, scelti non solo da chi vuole fare politica o svolgere una funzione pubblica in modo qualificato, ma anche da semplici cittadini che sentono il bisogno di acquisire maggiore contezza delle questioni politiche.
Nell’attesa utopica, che dura dai tempi di Platone, che si trovi il modo di assicurare alla politica uomini e donne razionali, probi e saggi, resta il problema di come difendere la democrazia dal rampantismo degli avventori politicanti. E allora all’annoso, anzi secolare, interrogativo su come educare i politici, nella nostra società democratica se ne impone uno molto più immediato: come educare i cittadini alla politica?
È sempre più evidente l’urgenza di educare alla politica. Se si considera che educare consiste essenzialmente nel fornire dei modelli, appare inevitabile l’imbarazzo di fronte alle nuove generazioni alle quali vorremmo potere indicare figure alte, esempi di agire politico finalizzato al buon governo. Ma non per questo possiamo schierarci nel partito dell’antipolitica, dello sfascismo che suona tanto come una rivisitazione dell’assonante fascismo. Ne va della sopravvivenza della nostra democrazia.
Dal 2008, con la legge 169, gli insegnanti dell’area storico-geografica, di tutti gli ordini e gradi di scuola, sono stati “attivati” al fine di sviluppare, tra la popolazione studentesca, conoscenze e competenze relative a «Cittadinanza e Costituzione». Dall’insegnamento dell’Educazione Civica introdotto nel 1958, si è così passati all’Educazione alla cittadinanza attiva, in conformità con le indicazioni europee. Ottima innovazione, ma solo nelle intenzioni, perché non si tratta di una “materia” cui destinare un insegnamento in precise ore scolastiche, né sono indicati specifici contenuti didattici, né sono previsti criteri di verifica e valutazione. Il profilo disciplinare di tale intervento formativo dunque rimane nel vago, rivestendo un carattere trasversale senza un definito statuto di insegnamento.
Se si considera che tale “innovazione” legislativa è stata introdotta dall’allora ministra dell’istruzione Gelmini, la stessa che aveva lanciato il “divieto di fare politica a scuola”, si coglie l’evidente coerenza all’interno di un modello educativo, di stampo neo-liberista, che concepisce l’istruzione come acquisizione di “competenze” finalizzate a incrementare potenzialità individuali utili al sistema economico e produttivo, per cui la scuola deve fornire una formazione rispondente ai programmi di governo. In quest’ottica è comprensibile che l’insegnante virtuoso debba essere apolitico.
E’ nella deontologia professionale dell’insegnante relazionarsi con gli allievi rispettandone l’autonomia di pensiero e la libertà di crescita. Ciò implica che rimanga estranea all’insegnamento ogni forma di manipolazione delle coscienze o anche di solo condizionamento indiretto. Ma questo non equivale alla “virtù” dell’apolitica, piuttosto, al contrario, risponde ad un’azione educativa fondata sul presupposto secondo cui per crescere è necessario sviluppare consapevolezza di sé e responsabilità di fronte alla comunità sociale; dunque a scuola, nel rispetto di ogni individualità, bisogna liberare coscienza critica, creatività, pensiero divergente, autostima, premesse perché si formino cittadine e cittadini consapevoli e maturi nella vita privata e in quella sociale. Tutto il contrario della conformazione a modelli precostituiti che richiedono consenso e massificazione.
Educare alla politica è piuttosto «educare alla disobbedienza», per dirla con don Milani per il quale l’educazione era per antonomasia educazione alla politica, cioè interesse critico e attivo per un agire che costruisca il bene di sé e degli altri.
A scuola si fa politica attraverso la lettura perché imparare a decodificare un testo, a interpretarne i significati, equivale a esercitare coscienza critica; si fa politica attraverso la matematica perché l’esercizio delle strutture logico-razionali abilita al rigore dell’analisi e della comprensione; si fa politica attraverso le scienze perché solo conoscendo le meraviglie della natura si sviluppa la cultura eco-sostenibile; si fa politica attraverso l’arte, la poesia, la musica, perché solo praticando la bellezza s’impara ad amarla; si fa politica insegnando obiettivamente ad analizzare la diversità delle idee che hanno segnato la storia, rispettando le rielaborazioni personali che ogni alunna ed alunno fa in piena autonomia.
Don Milani sosteneva che per cambiare la scuola occorresse dare ai ragazzi e alle ragazze un fine. In sintesi, tale fine consiste nel sentirsi parte attiva di una comunità inclusiva, ciò che si intende appunto con politica. È necessario però che gli insegnanti per primi siano degli appassionati di politica, a partire dalla passione per la materia che insegnano, attraverso la quale, con convinzione, possono testimoniare che quella conoscenza “serve” a comprendere se stessi e il mondo, sfatando l’equivoco o l’illusione per cui il monito «sapere è potere» equivalga all’acquisizione di un privilegio; piuttosto la conoscenza ha valore se genera la consapevolezza di un’ opportunità coniugata alla responsabilità. L’insegnante fa politica nella misura in cui stimola il desiderio di sapere, la passione per l’impegno, l’aspirazione al fare che sia espressione dell’essere.
I momenti di crisi impongono delle scelte: studenti e insegnanti sentono il bisogno del cambiamento, ma è sempre più evidente che se anche un governo di saggi riuscisse a concepire interventi in grado di restituire funzionalità e prospettiva alla scuola, a nulla varrebbe se non ci fosse un’ assunzione sociale di compito educativo, cioè chiarezza riguardo al respiro politico-istituzionale da dare alla scuola, per assicurare la formazione di cittadine e cittadini in grado di esercitare a loro volta un ruolo politico: soggetti creativi e propositivi, esigenti nei confronti di chi è stato votato a rappresentarli al governo della cosa pubblica, teste pensanti capaci di distinguere la vita virtuale che scorre come riflesso nell’antro di una caverna, dalla vita reale illuminata da coscienza e intelligenza.
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