“Il Grido della pace. Religioni e culture in dialogo” è questo il tema del meeting organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio che si è svolto a Roma dal 23 al 25 ottobre. L’evento, radicato nella visione dello “spirito d’Assisi”, ha visto convergere nella capitale personalità religiose, politiche e sociali provenienti da ogni parte del globo per discutere sull’attualità dell’impegno volto alla promozione della pace. Dal ruolo del mar Mediterraneo alla difesa dell’ambiente, dal protagonismo dei giovani allo sforzo di pacificazione dei conflitti attivi in diverse parti del mondo, con questo evento la Comunità di Sant’Egidio ha ancora una volta avanzato a livello internazionale la via della pace come unico percorso per un’umanità riconciliata e fraterna. Di questo tema discutiamo con Vincenzo Ceruso. Esponente della Comunità di Sant’Egidio, Ceruso è Segretario della Consulta diocesana delle Aggregazioni Laicali e fa parte dell’Equipe sinodale dell’arcidiocesi di Palermo.
– La guerra in Ucraina sembra confermare la visione di papa Francesco connessa all’attuale svolgimento di una “terza guerra mondiale a pezzi”. In questo contesto, quale rilevanza politica e culturale assume l’impegno per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio?
Il nostro impegno per la pace è una risposta a quella che Papa Francesco ha chiamato “globalizzazione dell’indifferenza”. L’uomo di oggi si è abituato a stare alla finestra del mondo, coltivando un senso di impotenza e di rassegnazione. Le tensioni unitive che hanno attraversato il XX secolo, per usare un’espressione di La Pira, sembrano sopite. La “terza guerra mondiale a pezzi” è lo scenario in cui ci troviamo a vivere, ma non abbiamo ancora compreso a sufficienza quali conseguenze questo comporta. Ad un mondo globalizzato deve corrispondere una responsabilità globale. C’è bisogno di pensiero e di cultura – non di ideologia! – per muoversi in un orizzonte vasto, senza lasciarsi intimorire da situazioni che sembrano troppo complicate. Il cristiano, in particolare, deve vivere la sua fede nelle strade della città e sugli orizzonti del grande mondo, abbattendo le barriere della distanza e dell’indifferenza. I cristiani, sottolinea Andrea Riccardi, sono il popolo del logos, gente della parola. Questa vocazione diventa ancora più importante da riscoprire in un tempo che sembra guardare alla guerra con rassegnazione, quando non con compiacimento.
Penso alla guerra in Ucraina, che ricordavi, ma anche a tante altre situazioni che la politica internazionale ha lasciato incancrenire, come la Siria o lo Yemen. Crisi crudeli, complicate da capire, ma non dobbiamo avere paura della complessità. Dobbiamo guardare al mondo globale con fiducia, riscoprendo le tante passioni solidali che hanno percorso la nostra storia. L’esperienza della Comunità di Sant’Egidio dimostra che si può sempre fare qualcosa e si può sempre resistere alla disumanizzazione. Quest’anno abbiamo festeggiato il trentesimo anniversario della pace in Mozambico, che pose fine ad una guerra decennale e i cui negoziati si tennero nei locali di Sant’Egidio a Roma, e di cui furono mediatori, insieme ad altri, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità, e un giovane sacerdote, don Matteo Zuppi, oggi Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
– Il titolo dell’evento appena conclusosi a Roma, “Il Grido della pace. Religioni e culture in dialogo”, sembra mettere al centro dell’attenzione le vittime delle guerre e gli ultimi della storia che, appunto, gridano il loro desiderio di pace. Quello di Sant’Egidio sembra essere uno sguardo sul mondo a partire dalle periferie. È così?
L’incontro di Roma ha voluto dare spazio al grido di pace che proviene dai popoli, contro ogni retorica bellica. Questo non significa una scelta di neutralità, ma essere schierati per la pace, come ha detto il Papa nella cerimonia conclusiva che si è tenuta al Colosseo. Sant’Egidio ha scoperto in anni lontani che la guerra è madre di tutte le povertà. Non abbiamo elaborato una teoria sulla pace, ma abbiamo provato l’orrore per le conseguenze che la guerra comporta nella vita dei popoli e dei più poveri in particolare. E, di fronte a questo, ci siamo messi a cercare vie di pace. Il legame con le periferie, che giustamente sottolinei, è all’origine della nostra stessa esperienza cristiana. Le periferie di Roma, abitate da immigrati provenienti dal sud Italia, negli anni Sessanta, in cui giovani borghesi si recavano per mettere in pratica quel Vangelo che li affascinava e che ascoltavano insieme. C’è un libro importante per la nostra storia, che s’intitola Vangelo in periferia,
recentemente ristampato, in cui viene narrato questo incontro con il popolo delle periferie: disoccupati, donne di servizio, gente che viveva di piccoli espedienti, tanta rassegnazione e violenza.
È un incontro che avveniva in una cornice solidaristica, occupandoci dei bambini, togliendoli dalla strada e aiutandoli a studiare, affrontando i problemi concreti delle famiglie, come l’acqua o la mancanza di un asilo nido, costruendo reti tra le persone. Ed era un incontro che avveniva nell’ascolto comune della Parola, pregando e celebrando insieme la liturgia. Era l’idea che la Chiesa doveva rinascere tra la gente, nelle periferie. Poi sarebbe venuto l’incontro con le realtà delle città europee e poi con le periferie delle megalopoli, nel grande Sud del mondo. Oggi Sant’Egidio è una realtà popolare in tanti paesi diversi. Le periferie delle nostre città sono molto cambiate da quelle degli anni Sessanta e siamo cambiati anche noi, ma è rimasta un’opzione fondamentale per le periferie e per i periferici, che ci ha preservato da ogni ideologia. Non è da una riflessione sociologica, ma è dall’incontro concreto con i più poveri, con “le periferie geografiche ed esistenziali”, che nasce un cristianesimo di popolo.
– Il magistero di papa Francesco è ricco di rimandi alla costruzione di una fraternità universale mediante l’opera delle religioni. Come e perché le religioni possono contribuire ai processi di pacificazione?
Le religioni possono sacralizzare i conflitti, ma possono anche essere forze di pace, promotrici di unità tra i popoli. E la Chiesa Cattolica, in particolare, può essere servitrice del dialogo. È la grande intuizione di Wojtyla, che ha trovato forma nella storica giornata di Assisi del 1986. Giovanni Paolo II convocava i leader delle grandi religioni mondiali nella città di San Francesco, per pregare non più gli uni contro gli altri, ma gli uni accanto agli altri.
Molti credevano, o volevano, che quella giornata di preghiera tra tutti i leaders religiosi fosse irripetibile, ma da Assisi è sorto un movimento spirituale che si è diffuso sempre di più. È un cammino che parte da lontano, dall’indicazione profonda di Giovanni XXIII per il dialogo ecumenico, che invitava a mettere da parte quello che divide e a cercare quello che unisce, e giunge alla Fratelli Tutti di Francesco, ancora poco meditata e che offre una bussola per orientarsi nel mondo globale, un mondo in cui le religioni vivono un nuovo protagonismo, spesso strumentalizzate come fattori identitari, collante di nuovi o vecchi nazionalismi, ma che riscoprono le loro radici autentiche nel dialogo. Praticare il dialogo, infatti, porta ad approfondire la propria fede e a non ignorare ciò che lo divide dagli altri. Ma le differenze non diventano occasione di conflitto. “Tutti parenti, tutti differenti”, diceva Germaine Tillon, una deportata sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. Le religioni, gli uomini e le donne di fede, conoscono le lacrime di quanti soffrono a causa della guerra e invocano la pace per tutti i popoli. La forza debole delle religioni si esprime nella preghiera, nel dialogo, in un atteggiamento spirituale disponibile all’incontro con l’altro.
– Nel suo intervento all’inizio del meeting sulla pace, Andrea Riccardi – fondatore della Comunità di Sant’Egidio – ha sostenuto che la politica e la società hanno bisogno di un realismo dotato di visione. Di che si tratta?
È la pace, che non è solo aspirazione, ma è prassi quotidiana, fondata sulla natura sociale dell’agire umano. Scriveva un giovane Karol Wojtyla in una sua poesia che lo stesso Riccardi ama citare: “Io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione”. L’uomo non si rassegna ad essere ridotto ad una sola dimensione, quella individualistica materialistica, ma ha bisogno di vivere nella dimensione dell’incontro. “La vita è l’arte dell’incontro”, scriveva un poeta.
Viviamo in un tempo povero di visioni, sono crollate le utopie dell’89, quando sembrava che al crollo del muro di Berlino dovesse seguire un orizzonte di pace universale. Sappiamo che non è andata così, ma la storia ci dice anche che la ricerca della pace è la sola strada realistica.
– In Italia si è da poco insediato il nuovo esecutivo. Il risultato delle elezioni ha sancito, senza dubbio alcuno, la vittoria della coalizione di centrodestra. Un governo che a parole ha ribadito la fedeltà agli accordi internazionali ma che nei fatti dovrà dimostrare un impegno per la cooperazione internazionale finalizzata alla pace e allo sviluppo dei popoli. Un tema, quest’ultimo, assente nella recente campagna elettorale ed escluso dalla nomenclatura dei ministeri. Come valuta i primissimi passi internazionali dell’esecutivo targato Meloni?
Mi sembra ancora presto per dare una valutazione, però non voglio sfuggire alla domanda. Credo e spero che l’ancoraggio all’Europa rimarrà un tratto irrinunciabile anche per questo esecutivo. L’unità europea, d’altronde, non nasce dall’intuizione di qualche tecnocrate, ma dall’aspirazione profonda dei popoli, usciti dalla terribile esperienza della Seconda Guerra Mondiale. In questo, come tanti altri, confido molto nella sapienza del Presidente Mattarella.
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