SINODO SULLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE, LUCI E OMBRE
Il Padre Generale ha partecipato al Sinodo dei Vescovi su: «La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana», terminato il 28 ottobre. Pubblichiamo l’intervista che padre Adolfo Nicolás ha rilasciato, a margine dell’evento, all’Ufficio stampa della Curia generalizia della Compagnia di Gesù.
«Devo confessare che avevo alcuni timori sul Sinodo prima del suo inizio. Mi domandavo: ci muoveremo nella direzione di parlare sempre delle stesse cose o saremo capaci di andare avanti con coraggio e creatività?
La realtà del Sinodo è andata nelle due direzioni. Posso indicare: 1) alcuni aspetti positivi, ispiratori e incoraggianti, e 2) alcune insufficienze che indicano campi in cui la Chiesa, o almeno la consapevolezza dei Vescovi e degli altri Padri Sinodali, me incluso, ha ancora strada da fare.
Gli aspetti positivi possiamo dividerli in tre categorie:
a) Apporti geografici. Questo aspetto si riferisce alla presentazione che ci ha dato il giusto senso della situazione, degli argomenti e, spesso, delle sofferenze di alcuni Paesi, in particolare il Medio Oriente, l’Africa o l’Asia. Uno dei migliori aspetti del Sinodo è il fatto stesso che i vescovi di tante nazioni hanno la possibilità di comunicare tra loro e scambiarsi liberamente le esperienze e il pensiero.
b) Iniziative originali in corso, specialmente quelle basate sui progetti di cooperazione, di lavoro in rete e di scambi a livello internazionale, nei quali sono coinvolti a fondo e impegnati i laici e i movimenti. E questo non solo attraverso gli interventi nelle sessioni plenarie, ma soprattutto negli scambi informali e nei commenti sulle stesse iniziative al di fuori delle sessioni.
c) Riflessioni sui fondamenti, il significato e le dimensioni della Nuova Evangelizzazione. Qui possiamo constatare una grande convergenza su alcuni punti, tra cui:
* l’importanza e la necessità dell’esperienza religiosa (l’incontro con Cristo);
* l’urgenza di una buona formazione spirituale e intellettuale dei Nuovi Evangelizzatori;
* Il ruolo centrale della famiglia (Chiesa domestica) come luogo privilegiato per la crescita nella fede;
* l’importanza della parrocchia e delle sue strutture che hanno bisogno di essere rinnovate per diventare sempre più aperte a un più vasto impegno e ministero dei laici;
* la priorità all’evangelizzazione piuttosto che all’espressione sacramentale, come afferma San Paolo di se stesso: “Inviato ad evangelizzare e non a battezzare”;
* e così di seguito.
Tra le “insufficienze” possiamo indicare le seguenti:
a) La voce del “Popolo di Dio” non ha spazio per essere ascoltata. E’ un Sinodo di vescovi e quindi non c’è molto spazio per la partecipazione dei laici, anche se sono stati invitati un certo numero di “esperti” e “osservatori” (auditores). Ciò mi ha fatto venire in mente l’affermazione di Steve Job che diceva di essere interessato ad ascoltare più la voce dei clienti piuttosto che quella dei produttori. E al Sinodo tutti siamo stati “produttori”.
b) E così è stato difficile non pensare che questa era una riunione di “uomini di Chiesa che riaffermavano la Chiesa”, cosa buona in se stessa ma che non rispecchia ciò di cui abbiamo bisogno in tempo di Nuova Evangelizzazione. C’è il pericolo reale di produrre sempre la stessa cosa.
c) Mancanza di riflessione sulla Prima Evangelizzazione e, di conseguenza, una scarsa considerazione sul se e cosa abbiamo imparato dalla lunga storia passata e dagli aspetti positivi di essa, come pure dagli errori che abbiamo commesso. Questa omissione potrebbe avere conseguenze molto negative.
d) Poca consapevolezza e/o conoscenza della storia dell’evangelizzazione e del ruolo che hanno avuto in essa i religiosi e le religiose. In certi momenti la vita religiosa è stata ignorata o è stata ricordata solo di sfuggita. Non che noi religiosi abbiamo bisogno di ulteriori affermazioni, ma intendo esprimere la mia preoccupazione per il fatto che la Chiesa rischia di perdere la sua stessa memoria.
e) Forse il punto più debole del Sinodo è stata la metodologia che si è seguita, molto simile al modo in cui anche noi portavamo avanti le nostre Congregazioni Generali. Io spero, tuttavia, che la complessa realtà e le necessità del futuro aiutino la Chiesa a riorganizzare i suoi modi di procedere in vista di maggiori frutti apostolici.
Potete capire che è stato un tempo di molta riflessione, apprendimento e sfide. L’invito ad approfondire la nostra fede proposto dal Santo Padre può aiutarci a portare avanti una dimensione più profonda della Nuova Evangelizzazione. La realtà che ci circonda è diventata molto più complessa perché la possiamo affrontare individualmente, e la sfida originaria della nostra missione di servire le anime e la Chiesa continua e si sviluppa in intensità.
Spero che i gesuiti faranno fronte alle nuove sfide con la profondità che proviene dalla nostra appropriazione della spiritualità ignaziana e dall’analisi seria del nostro tempo.
Prego perché la riflessione sull’Anno della Fede nelle nostre comunità e forme di apostolato ci aiuti a rinnovare il nostro spirito e la nostra missione».
Nel suo intervento al Sinodo lei ha parlato dei «Segni di santità europei». Cosa intende dire? Non sono questi forse segni cristiani universali?
Naturalmente. I Segni che scopriamo in un Santo sono valori universali ed esprimono diverse dimensioni della vita divina così come diventa visibile tra noi. Parliamo qui della carità, della compassione, del servizio a coloro che soffrono, che sono nel bisogno, che sono soli ed afflitti Ciò che voglio dire è che ci siamo abituati a questi segni e siamo inclini a pensare che non ce ne siano altri. Se questo è il caso, non renderemmo Dio molto limitato, prevedibile e perfino ridotto alla capacità europea di “vedere” segni familiari della sua presenza e azione? Senza alcun dubbio sostengo che questi segni sono buoni, credibili e solidi. Il mio interrogativo riguarda ciò che possiamo aver perduto non scoprendo altri segni, per non essere sorpresi e in ammirazione all’azione creativa di Dio in “altri”, in gente di diverse culture, tradizioni e appartenenza etnica. Poco prima del Vaticano II P. Jean Danielou scrisse un libro dal titolo: Santi Pagani, un libro che era una sfida e un’ispirazione, e forse quei Santi non erano così pagani, dopotutto.
Ci può indicare alcuni segni di ciò che lei considera essere una santità «asiatica»?
Con piacere. Come dato di fatto, anticipando questa domanda, ho consultato alcuni esperti asiatici su questo tema e posso dire che la consultazione è stata molto fruttuosa. Vorrei offrire alcuni esempi: la pietà filiale che talvolta raggiunge livelli eroici; la ricerca intensa dell’Assoluto e il grande rispetto per coloro che sono impegnati in questa ricerca; la compassione come stile di vita, radicata nella consapevolezza della debolezza e fragilità umana; il distacco e la rinuncia; la tolleranza, la generosità, l’accettazione degli altri, la magnanimità; il rispetto, la cortesia, l’attenzione alle necessità degli altri; ecc. Riassumendo, possiamo forse dire che se i nostri occhi fossero aperti per vedere ciò che Dio opera nel popolo (nei popoli) saremmo capaci di vedere molta più Santità attorno a noi e molti di noi sarebbero spinti a vivere la Vita di Dio in modi nuovi che forse sarebbero più adatti al nostro modo di essere o al modo in cui Dio vuole che siamo.
Perché i missionari o la Chiesa stessa non sono stati capaci di «vedere» questi meravigliosi segni come opera di Dio?
È molto difficile interpretare perché una cosa non si verifica. Saremmo tentati di introdurre delle spiegazioni che potrebbero essere accurate, ma anche teorie che perdono di vista l’obiettivo specifico. Forse non siamo a nostro agio con un Dio delle sorprese, un Dio che non segue necessariamente la logica umana, un Dio che sa sempre tirar fuori il meglio dal cuore umano senza fare violenza alla tradizione culturale, alla religiosità del popolo semplice. Chi può dirlo? Noi entusiasticamente affermiamo la libertà di Dio, ma non gli lasciamo molto spazio per influire sulle nostre vite… o magari abbiamo “visto” quei segni con rispetto e forse anche con stupore, ma non siamo stati sicuri del loro significato o non lo abbiamo approfondito.
Lei dunque dice che c’è «Santità» fuori della Chiesa. Ma, se c’è «Santità», non dobbiamo dire che c’è anche Salvezza?
Naturalmente. Lo abbiamo sempre saputo. Fa parte della Libertà di Dio. Dio è libero di fare come vuole con la gente (uomini e donne) in ogni situazione e in ogni contesto. Gesù non ha avuto difficoltà nel riconoscere in un soldato pagano o in una donna straniera la profondità della fede che ha trovato invece mancante tra i suoi discepoli. Ma io non ho una teoria della salvezza e quindi può risparmiarsi la domanda seguente. La mia più profonda preoccupazione è scoprire in che modo Dio è al lavoro nell’uomo e come questi coopera con l’azione di Dio. E qui non posso sbagliare. Con le teorie invece sì.
Secondo lei che cosa e in che modo dobbiamo mettere in risalto la responsabilità della chiesa per portare pace e armonia alla luce della Nuova Evangelizzazione nel nostro mondo sempre più violento?
Sono convinto che qualsiasi cosa facciamo venga dal più profondo, dall’interno, di noi stessi. È il risultato della nostra fede, dei nostri rapporti (incluso quello con Dio), dei nostri affetti e delle nostre speranze. Se il più profondo di noi è in comunione con il Dio della pace, della giustizia e della compassione, in cui crediamo, allora vivremo, agiremo e parleremo di pace, di giustizia e di compassione. Se il mondo intorno a noi diventa sempre più violento non significa che anche noi lo dobbiamo diventare ma, al contrario, che il nostro impegno, che proviene dal cuore, per la pace e per il dialogo diventerà molto più rilevante e sarà una proclamazione ancora migliore del Vangelo in cui crediamo. Naturalmente, questo assumerà diverse forme quando pensiamo alla Chiesa e alle molte attività e iniziative che verranno promosse dai cristiani impegnati.
Da Popoli Webmagazine internazionale dei gesuiti del 29 ottobre 2012
http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Sinodo_sulla_nuova_evangelizzazione_luci_e_ombre.aspx
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