Qualcosa è cambiato
Ora che si stemperano i toni, inevitabilmente convulsi, che hanno caratterizzato i giorni dell’elezione del presidente della Repubblica e quelli – sicuramente meno emotivi, ma pur sempre propri di una reazione “a caldo” – dei primi commenti, è forse il caso di provare a fare una riflessione più pacata su ciò che è cambiato dopo questa travagliata vicenda.
Perché qualcosa è sicuramente cambiato. Il fatto che ne usciamo con una situazione apparentemente immutata – Mattarella al Quirinale, Draghi a palazzo Chigi – non può ingannare nessuno. E le conseguenze di questo cambiamento incombono sul nostro futuro, aprendo una serie di interrogativi che riguardano sia le sorti del governo, sia la prossima tornata delle elezioni nazionali.
Per quanto riguarda il primo punto, la posizione del premier, contrariamente a quanto sostenuto da qualche giornale della Destra, non esce indebolita, ma anzi rafforzata da quanto accaduto in questi giorni. Dopo aver respinto l’ipotesi di una candidatura di Draghi al Quirinale invocando – poco importa se in buona o in cattiva fede – la sua insostituibilità come presidente del Consiglio, nessuna forza politica di governo può permettersi di contestarlo.
Lo si è visto chiaramente in occasione delle ultime richieste di un rimpasto di governo, avanzate dalla Lega, e a cui fornivano una sponda le polemiche sul comportamento della polizia nei confronti della protesta studentesca, polemiche che chiamavano in causa il ministro dell’Interno, Lamorgese, da sempre indigesta a Salvini per la sua linea sul fenomeno migratorio. Draghi le ha semplicemente ignorate e ha tirato dritto.
Riguarda la tenuta del governo anche un secondo punto posto all’ordine del giorno dalle elezioni per il Quirinale, e cioè la conflittualità, all’interno del movimento dei 5stelle, tra Di Maio e Conte. Ciò che è accaduto nei giorni scorsi ha dimostrato l’inconsistenza politica di entrambi, soprattutto del secondo, che
si è avventurato in una ridda di proposte ogni giorno diverse e tutte poco fondate, per dover alla fine ripiegare sul nome di Mattarella, che i grillini non hanno mai particolarmente amato (c’era stata addirittura, dopo le elezioni del 2018, da parte di Di Maio, una richiesta di impeachment nei suoi confronti…).
Soprattutto, però, queste elezioni del presidente della Repubblica hanno segnato una evidente spaccatura tra i due leader, che si rinfacciano a vicenda la responsabilità della sconfitta e che sembrano sul punto di una resa dei conti personale.
La frattura nella Destra
Ma forse la rottura più clamorosa determinata dal voto per il Quirinale è quella della Destra. Col suo protagonismo frenetico Salvini ha cercato di accreditarsi di nuovo – dopo un lungo periodo di declino che ha visto l’ascesa di Fratelli d’Italia a spese della Lega – come il leader di tutto lo schieramento della Destra.
Era una partita importante, che avrebbe dovuto sanare la frattura creatasi con la scelta dello stesso Salvini di entrare a far parte del governo Draghi, lasciando la Meloni sola all’opposizione. Le cose sono andate, invece, nel peggiore dei modi. Ci sono stati due tentativi di convergenza, ma entrambi fallimentari.
Il primo si è concluso con la forzata rinunzia di Silvio Berlusconi di fronte alla impossibilità di trovare i voti necessari per realizzare il suo sogno. Per il bene dell’Italia, che – con l’elezione di un candidato reduce da una condanna per truffa e da diverse vicende giudiziarie, eluse solo grazie al decorrere dei termini di prescrizione – avrebbe visto gravemente scossa la sua credibilità internazionale.
Per non parlare della spaccatura drammatica che si sarebbe verificata in un Paese in cui Berlusconi è stato il personaggio più controverso degli ultimi venticinque anni. Circostanze che non hanno certo accreditato il senso di responsabilità della Destra nel presentare questa candidatura, anche se non manca chi sostiene che si è trattato di una scelta “di bandiera”, destinata più a bruciare il candidato comune che a sostenerlo davvero.
Non meno velleitario, e questa volta molto più grave in termini di immagine, si è rivelato il tentativo di fare eleggere la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, assecondando, peraltro, una sua insistente richiesta. Una scelta sciagurata, sia per l’interessata che per l’istituzione da lei rappresentata, entrambe uscite umiliate dal risultato della votazione, aggravata dalla scena indecorosa della seconda carica dello Stato che non solo non ha sentito il dovere di astenersi dal presiedere la votazione (come aveva signorilmente fatto, a suo
tempo, Oscar Luigi Scalfaro), ma che è stata spietatamente ripresa dalle telecamere mentre, invece di svolgere al meglio la sua alta funzione, compulsava freneticamente il proprio cellulare.
Non contento di avere condotto il suo schieramento a questi fallimenti, in cui comunque la Destra era rimasta unita, Salvini ha definitivamente dimostrato la differenza che c’è tra un “capitano” (il titolo attribuitogli dai suoi fans) e un generale, facendo una scelta da unico protagonista e puntando sulla candidatura di Mattarella, fortemente osteggiata dalla Meloni, senza neppure consultare l’alleata. Che, naturalmente, non l’ha presa bene e ha denunciato l’inconsistenza di un’alleanza che le riservava un ruolo ancillare (e dire che Salvini si è fatto un merito di essersi battuto per una candidatura femminile…).
A vincere è stato il vuoto culturale ed etico
Saremmo lieti di dir che, tra tanti sconfitti, qualcuno è uscito vincitore. Ma non possiamo farlo, perché onestamente in questa circostanza il segretario del PD, Enrico Letta, ha confermato tutti i suoi limiti caratteriali e politici, sia nel governare il suo partito – anch’esso diviso, tanto per cambiare – , sia nel cercare soluzioni creative che aprissero la strada al futuro, invece di mantenersi arroccati sul passato.
Perché – e su questo gli osservatori sono tutti d’accordo – se da un lato bisogna rendere onore a Sergio Mattarella per il suo altissimo senso di responsabilità verso il Paese e tributargli piena gratitudine per il suo sacrificio – , dall’altro è chiaro che la sua conferma è il frutto dell’impotenza di una classe politica, quella della Seconda Repubblica, incapace di trovare soluzioni all’altezza della nostra storia democratica, se non reclutandole dal passato della Prima.
In realtà il vizio d’origine che queste elezioni del capo dello Stato hanno messo in evidenza è la mancanza di una visione della politica come ricerca condivisa – anche se da punti di vista diversi – del bene comune. Ogni partito, senza eccezioni, ha dato l’impressione di muoversi più sulla base di calcoli riguardanti i suoi interessi, che non per servire quelli del nostro Paese. Dove un ruolo importante in queste valutazioni – e non solo per i partiti, ma per i singoli membri del Parlamento – è stato svolto dalla possibilità che la scelta di Draghi portasse a elezioni anticipate, da alcuni sperate, da altri temute (secondo i maligni, anche perché avrebbero segnato la perdita del “posto” e del relativo stipendio).
Da qui la mancanza di un possibile criterio comune sulla cui base confrontarsi. Mentre il bene unisce quelli che lo cercano, anche da posizioni contrastanti, gli interessi solitamente dividono, perché la loro realizzazione da parte di uno avviene a spese della riuscita dell’altro. Molti osservatori hanno parlato di “fallimento della politica”. Pochi però, per quanto mi risulta, si sono chiesti il perché. Meglio, pochi sono stati capaci di andare al di là dell’individuazione delle responsabilità dei singoli protagonisti e di mettere in evidenza che, alla radice di questo disastro, c’è una crisi culturale ed etica che ha eliminato l’idea stessa di un bene oggettivo, a cui tendere, pur nelle divergenze, e l’ha sostituita con la insindacabile ricerca del proprio soggettivo, che trasforma i conflitti, sia privati che pubblici, da occasioni di dialogo in prove di forza.
Né i partiti della Destra né quelli della Sinistra sembrano in grado, non dico di superare, ma neppure di affrontare consapevolmente questa crisi profonda. E forse non lo possono, perché essa riguarda, prima che i rappresentanti, i rappresentati, i cittadini, noi tutti. Stiamo pagando amaramente, anche a livello politico, un vuoto etico e spirituale che non solo colpisce la famiglia, rompendone sempre più spesso l’unità, non solo impoverisce la scuola privandola della sua carica educativa, ma svuota il dibattito democratico e lo trasforma, come è avvenuto in occasione di queste elezioni, in un gioco caotico di monologhi, di “trovate” e di veti reciproci.
Per quanto arduo, il compito di chi vuol fare politica, oggi, in Italia, è di seminare riflessione, pensiero e, conseguentemente, vero dialogo. Per far questo non è necessario essere parlamentari o membri del governo. È il momento di risvegliare la nostra coscienza di cittadini, assumendosi la responsabilità – che in democrazia è di ognuno e di tutti – di sconfiggere la pigrizia mentale e costruire alternative ai luoghi comuni correnti. È necessaria una rivoluzione culturale. E a chi obietterà, con un’alzata di spalle, che i nostri sforzi sarebbero come una goccia nel mare, facciamo notare che il mare è fatto di gocce.
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