di Giuseppe Savagnone
Il tempo è, come spesso si sente affermare, denaro? L’ansia, che oggi ci divora, di “guadagnarlo” o di “risparmiarlo”, sembrerebbe confermarlo. Come con il denaro, si cerca di averne quanto più è possibile, ma solo per investirlo. Lo guadagniamo e lo risparmiamo solo per poterlo spendere in sempre nuove occupazioni. Tanto che, alla fine, ne abbiamo meno di prima – di quando il tempo si “perdeva” in mille modi, e tuttavia, paradossalmente, veniva percepito come più abbondante.
Perché è sicuro che, in quest’epoca, caratterizzata dall’aumento della durata media della vita e dalla velocità delle comunicazioni, dei trasporti, dell’accesso ai beni e ai servizi, è aumentata anche la fretta. Ci si sarebbe potuti aspettare che ad averne fossero gli uomini e le donne di altre stagioni della storia, in cui si moriva mediamente a quarant’anni e per andare, o far giungere una notizia, a poche centinaia di chilometri si impiegavano settimane. E invece l’abbiamo noi, che godiamo di un’aspettativa di vita quasi doppia, che ci spostiamo in poche ore da un continente all’altro e ci scambiamo le informazioni in tempo reale. Più corriamo, meno tempo ci ritroviamo.
Il fatto è che, come accade con il denaro, più se ne ha più se ne vuole. Perché, nell’arco temporale in cui una volta si faceva, con calma, una cosa sola, oggi se ne vogliono fare tre, quattro, dieci, cento. Il prezzo di questo “di più” è, però, una perdita di concentrazione sul momento che si sta vivendo, a causa dell’ansia del prossimo obiettivo.
A un saggio indiano una volta un suo discepolo chiese in che cosa consistesse la saggezza. E il Maestro rispose: «Saggio è colui che, quando è seduto, sta seduto; quando è in piedi sta in piedi; e, quando cammina, cammina». Il discepolo rimase interdetto: «Maestro», osservò timidamente, «ma questo è ciò che facciamo tutti!». «No», rispose il saggio. «Perché la maggior parte delle persone, quando sono sedute, pensano a quando saranno in piedi; quando stanno in piedi, a quando cammineranno; e, quando camminano, a quando arriveranno».
Il problema di equiparare il tempo al denaro è che, allora, lo si insegue freneticamente, senza mai poterne godere, come accade col denaro, che in sé è nulla e che vale solo come mezzo per poter avere qualcos’altro. Nessuno potrebbe invidiare Paperon de’ Paperoni, che scambia questo mezzo con una vita vera, che gli manca. Forse la nostra ingordigia nel “guadagnare” tempo nasconde una sindrome simile: essa è inversamente proporzionale alla nostra capacità di riempirlo con qualcosa che valga veramente la pena di essere vissuto. La nostra fretta, proiettandoci verso appuntamenti privi di reale consistenza, ci permette di dimenticare quello con noi stessi e col nostro destino.
Nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino, proprio a proposito della rapidità, racconta la leggenda di un anello magico, che faceva innamorare perdutamente della persona che lo portava, indipendentemente dalla sua identità. Perciò, mentre questa si credeva desiderata, in realtà ad essere bramato era sempre e solo l’anello. Questo illusorio amore era, dice lo scrittore, «la corsa del desiderio verso un oggetto che non esiste, un’assenza, una mancanza, simboleggiata dal cerchio vuoto dell’anello».
Basta guardarsi intorno – o, meglio, basta guardare la nostra personale esperienza – per rendersi conto, con un po’ di stupore, che l’incantesimo dell’anello agisce anche sulla nostra società e forse su noi stessi. La verità è che il tempo non è un mezzo, come il denaro, ma un fine, perché è la nostra esistenza. Perciò non dev’essere inseguito, ma vissuto.
In un libro scritto alla vigilia della propria morte prematura, un noto giornalista, Pietro Calabrese, parla di ciò che la sua malattia gli ha regalato. Essa – egli scrive – ,paradossalmente è stata importante «perché finalmente realizzassi che il valore della vita (…) è dentro le piccole cose che compongono il quotidiano, il qui e ora, alle quali non diamo mai importanza, o ne diamo troppo poca. Perché sprechiamo il valore delle cose che contano veramente». E, rivolgendo ai suoi lettori, li invita «a comprendere che il numero dei giorni che vi restano non conta molto. (…). Diventerà esattamente quello che vorrete voi. Ogni giorno può durare, se veramente lo volete, cento ore, ogni ora mille minuti, ogni minuto migliaia e migliaia di secondi. E in tutto questo tempo regalato ci sono cose meravigliose che vi aspettano. Basta saperle vedere. E volerne godere».
No, il tempo non è denaro, è molto, molto di più! E se noi ce lo lasciamo rubare dalla fretta, alla fine non saremo nulla, perché noi siamo il nostro tempo: quello che abbiamo vissuto, che ci resta nella memoria e ci fa essere le persona che siamo (chi saremmo, senza il nostro passato?); quello che viviamo nell’attimo presente, che va gustato o sofferto per quello che è e che ci dona; quello che ci attende nel futuro, carico del fascino dell’imprevedibile.
Qualcuno obietterà che tutto ciò non tiene conto della routine stressante del lavoro, delle incombenze talora alienanti della vita familiare, del logorio che la nostra società, con i suoi ritmi, determina nelle persone. Per la verità, questa riflessione nasce, al contrario, proprio dalla constatazione di questi fenomeni e dallo stupore davanti alla cieca sottomissione di tante persone alla disumanizzazione che essi comportano.
Per riappropriarsi del proprio tempo non si può pretendere che il corso esteriore delle cose cambi. Del resto, che non sia questo l’essenziale, lo dimostra il modo in cui molti vivono le pause di relax e le vacanze, apparentemente adattissime a favorire un modo diverso di vivere il tempo, ma in realtà spesso caratterizzate da un’ansia frenetica di divertirsi e da una fretta che ricordano da vicino quelle dei giorni lavorativi. Piuttosto, si dovrebbe forse instaurare un rapporto diverso con se stessi, che, invece di proiettarci all’esterno, in una corsa ad ostacoli che somiglia molto a una fuga, ci riconcili con la nostra vita e ci aiuti ad accettarla umilmente.
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