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Amare Dio è amare il fratello

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Introduzione alla lectio divina su Mt 22, 34-40

26 ottobre 2014 – XXX domenica del tempo ordinario

34 Allora i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35 e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36 “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”. 37 Gli rispose: ” Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente . 38 Questo è il grande e primo comandamento. 39 Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso . 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.

 

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Il figliol prodigo, Giorgio de Chirico, 1922, olio su tela

Museo del Novecento, Milano

Si può comandare l’amore?

Ai farisei che gli chiedono quale comandamento sia il più importante tra tutti, Gesù risponde che tutta la Legge e le parole dei profeti si riducono a due comandamenti soltanto: l’amore per Dio e l’amore verso il prossimo.

Il comandamento dell’amore non è qui un precetto morale. In questi versi dell’evangelista Matteo non ci vengono imposti obblighi, ma vengono svelate le conseguenze dell’amore che si riducono, alla fine, ad un fatto fondamentale: chi ama Dio non può non amare il fratello.

Non è una dogma, né una verità filosofica. L’amore non è un concetto, ma un’esperienza, una conseguenza pratica: si tocca, si vede.

Il punto che emerge e che diventa bruciante capo d’accusa per i farisei non è l’inutile gerarchia dei precetti, bensì un’altra e ben più importante questione: da come amo l’altro, capisco quanto e come amo Dio.

La questione su quale sia il comandamento più grande nasconde in realtà (ancora una volta) una trappola.

 Colpiti, ma non convertiti, dalla Parola di Gesù che sta rivelando al mondo una nuova idea di Dio, i farisei cercano una nuova occasione di conflitto per mettere alla prova Gesù e farlo cadere in fallo cercando, più esattamente, di “prenderlo al laccio con una parola”  (Mt 22,15).

Il grande precetto (il kelal gadol della Torah) era un problema molto discusso nell’ambito dell’ebraismo farisaico che disputava su una possibile gerarchia dei precetti o sull’individuazione di un principio unitario che li racchiudesse tutti. Occorre tenere conto che la Torah comprendeva circa 613 prescrizioni articolate in 248 comandi (numero pari alle membra del corpo allora conosciute) e 365 divieti (uno per ogni giorno dell’anno).

La risposta di Gesù ai farisei non è nuova nei contenuti perché, pur eliminando alla base la questione delle gerarchie, richiama i suoi ascoltatori a due comandamenti fondamentali a loro già ben noti perché presenti tanto nel Levitico (19,18 amerai il prossimo tuo come te stesso) quanto nel Deuteronomio (c.6,5: Ascolta Israele … Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze). Quest’ultimo comandamento, poi, particolarmente importante, noto anche semplicemente come lo Shemah Israel era il comandamento da tenere fisso nel cuore, da legare come un segno, da tenere come un pendaglio tra gli occhi (Dt 6,5). Ma per gli ebrei qualsiasi precetto aveva lo stesso valore.

A prestar bene attenzione, ciò che appare un dato senza precedenti è proprio l’associazione dei due precetti e la loro articolazione in un primo e secondo comandamento. Non solo l’amore totalizzante per Dio in tutto il cuore, l’anima e la mente (Matteo usa in anziché con come in Marco 12,28-34) è definito con chiarezza ‘il comandamento grande e primo’ ma a questo precetto, che impegna l’uomo interamente con tutte le sue facoltà e con tutto se stesso, è simile – cioè è speculare – il secondo, quello dell’amare il prossimo come se stesso.

E’ proprio questa specularità a colpire i farisei che si trovano radunati lì per porre una questione su Dio, ma nel contempo contro il loro prossimo Gesù, di cui cercano la rovina. Il loro atteggiamento mostra in sé tutta l’incongruenza di una fede in Dio che si professa solo con le parole, per dogmi e precetti.

L’amore per il prossimo, afferma qui Gesù, è specchio del nostro amore per Dio e tutta la Torah e i profeti sono “appesi” (il vero greco è krématai) a questi due precetti «come una porta sta sospesa a due cardini» (A. Mello).

Di tutti i comandamenti delle Scritture, dopo la venuta di Gesù sulla terra, ne resterà uno solo: sarà il comandamento antico, perché pronunciato da Gesù fin dall’inizio, ma nel contempo nuovo, perché ultimo e definitivo, perché in esso trova sintesi e compimento tutta la Legge (1 Gv 2,7).

Nell’ ‘amare l’altro come se stesso’ non si tratta di proiettare sull’altro me stesso, il mio io, la mia storia, la mia cultura. Il criterio per capire l’amore dell’altro non sono più io, ma Dio stesso e Cristo che, con la sua vita, ci ha mostrato l’amore per l’altro fino al dono della vita. Solo così posso amare l’altro al di là di me stesso, al di là della mia storia, della mia cultura, della mia carne; solo così posso amare, nell’altro, la sua storia. Solo mutando criterio, posso addirittura amare il nemico, rendere possibile e realizzabile l’utopia cristiana.

Quella cui ci troviamo dinnanzi è un’utopia resa possibile da Cristo, dalla sua stessa vita e che, per questo, ci viene continuamente consegnata come progetto da realizzare per un mondo pienamente umano. Un’utopia, infine, che ci viene continuamente comandata.

L’amore è comandato perché ci proviene da un Altro, ci viene direttamente da Dio e non da noi; perché, se non ci venisse comandato non solo non arriveremmo ad amare (addirittura) il nemico, ma non potremmo amare neanche i più simili a noi e forse neanche noi stessi (S. Chialà).

Il comandamento non equivale ad un codice etico, cui sottostare, ma equivale a lasciarsi coinvolgere in un’esperienza di vita che porta i segni di Dio. Il primo passo su questa strada è lasciare che quel Dio/luce allontani innanzitutto da noi la tenebra della menzogna. La prima menzogna è quella di chi ritiene di non avere peccato o di chi, addirittura odia il prossimo e pensa di poter essere in comunione con Dio.

Chi crede che, anche non amando il fratello, può amare Dio e camminare nella luce, dirà bene Giovanni nella Prima Lettera, non solo è un mentitore, ma non “fa la verità”.

Chi odia il fratello e dice di amare Dio mente, dunque. Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (1Gv4,20). Facendo così inganniamo solo noi stessi.

Possiamo contraffare tutto con le nostre parole, con le nostre menzogne. L’unica cosa che non si può contraffare, né adulterare, è l’amore.

Isabella Tondo

 

 

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