III domenica del Tempo di Quaresima – 28.2.2016
[1] In quello stesso momento si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilatoaveva mescolato con quello dei loro sacrifici. [2] Rispondendo, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver patito tale sorte?[3] No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. [4] O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più debitori di tutti gli abitanti di Gerusalemme? [5] No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.
[6] Disse allora questa parabola: “Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutto, ma non ne trovò. [7] Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? [8] Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime [9] e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai”.
Il brano è ambientato all’inizio del viaggio verso Gerusalemme, in un contesto di formazione dei discepoli, e invita attraverso il discernimento della propria storia a una indifferibile conversione. Il tutto ritmato da tante suggestioni annodate al tempo: il tempo disteso della vita (il kronos), il tempo contratto da una fine prematura, il tempo favorevole che dura un istante (kairòs), il tempo dilatato dalla paziente attesa di Dio (ancora quest’anno). Infatti per tutto il capitolo precedente Gesù ha puntato il dito sulla necessità della vigilanza a partire da “questa notte stessa” (12,20), “nell’ora che non pensate” (40), “nel giorno in cui meno se l’aspetta e in un’ora che non sa” (46), per finire con un “come mai questo tempo (kairòs) non sapete giudicarlo? (56).
Intanto la notizia che ad apertura del brano gli viene sottoposta è una larvata minaccia alla sua attività di galileo capopopolo; sarà destinato a subire la fine già riservata da Pilato a quei galilei appena trucidati nel tempio come rivoluzionari zeloti. Con lo stesso intento dissuasivo il capitolo si chiuderà con la minaccia che anche il re Erode è alla sua ricerca. Ma dietro lo spettro della fine violenta si annida, più velenoso, il giudizio implicito di colpevolezza da parte di Dio, riservato, come creduto, a chi è colto da morte prematura.
Ma Gesù si sottrae all’intimidazione rovesciando le posizioni: non lui, ma gli altri devono temere la morte, rovina finale di chi non si converte dalla concezione sbagliata di un Dio giustiziere, accanito contro le vittime della storia e che riconosce patenti di giustizia a chi prospera impunemente. Gesù disinnesca questa carica mortifera e ne disimpegna suo Padre. La rovina nasce, per tutti, dalla scelta di negarsi a un Padre misericordioso. Salvezza è accoglierlo.
Il kairòs è allora la pietra focaia che deve innescare la scintilla della conversione. E conversione è tornare a scegliere Dio. La vita umana si dipana nel corso di continue scelte, consapevoli o meno, che abitano lo spazio della nostra storia e il tempo della nostra vita, disteso ma pur limitato.
Dinanzi al tempo contratto improvvisamente la questione si fa seria. La morte prematura inferta dall’arbitrio degli uomini o degli eventi è sempre una lacerazione; per la fede uno scandalo che ha posto mille interrogativi e mille tentativi di risposta. La più rudimentale e antica, biblicamente, è consistita nella punizione divina per il peccato (Dt 30,19-20). Interpretazione non priva di una sua drastica efficacia pedagogica, a livello “elementare”. E sempre suggerita dalle viscere di misericordia di un Dio che non “vuole” la rovina del peccatore, ma che l’empio si converta e viva (Ez 18,23). Tuttavia ipotesi che ci consegna un’immagine di Dio forzatamente “giustizialista”. Tesi retributiva comunque poi confutata da una riflessione appena un po’ più realistica: come può avvenire che invece siano il giusto e l’innocente a soffrire il male, mentre magari gli empi prosperano? “Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’iniquità, perché, vedendo i malvagi, taci mentre l’empio ingoia il giusto?” (Ab 1,13). E qui si metterebbe in gioco la credibilità di un Dio impotente a fare giustizia.
Ma Gesù ribalta l’implicito giudizio di condanna portando gli uditori a non proiettare il male fuori da sé, ma a volgersi al proprio profondo per scoprirvi una costitutiva e originaria connivenza. “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia” ci ricorda Paolo (Rm 3,23). Il peccato diventa il luogo della salvezza. Unico modo di accoglierla, la conversione “qui e ora”, pena la perdizione “allo stesso modo”. Ossia perdere con il proprio kronos anche il proprio kairòs. “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2Cor 6,2)”.
Mille sono state le strategie di Dio. Le ha tentate tutte e l’ultima si è chiamata Gesù, la carta vincente. Vincente da perdente: “… diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno (Gal 3,13-14)”.
Dopo l’incarnazione e la redenzione noi cristiani abbiamo rinunciato a cercare una risposta al mistero del dolore. “Tale risposta potrà essere percepita solo se ci affideremo in un amore incondizionatamente adorante, a quel Dio che fa se stesso risposta” perché “l’accettazione di Dio come mistero non disponibile e la tacita accettazione dell’oscurità e dell’insondabilità del dolore sono lo stesso evento” (K. Rahner, Perché Dio ci lascia soffrire?, pp. 559-562). Allora contempleremo la risposta nel Galileo, il cui sangue Pilato ha versato come di agnello muto.
Subito dopo una breve parabola, originale di Luca, sul fico sterile e sul tempo dilatato. Implicita l’allusione all’osservazione di Giovanni Battista: “ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco” (3,8-9). Ma non così agisce il Dio di Gesù Cristo, che ama dilatare il tempo: “ancora quest’anno” è l’anno di grazia del Signore, annunziato a Nazaret e che dura sempre, tutta una vita.
Dilazione accordata da chi conosce il nostro cuore e sa che l’uomo ha bisogno di tempo, a volte di lunghi tempi, per diventare il progetto pensato: sino a quando “Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo” (Sal 1,1-3).
Nel nostro Dio le minacce sono per la conversione, il giudizio è per la conversione, la dilazione è per la conversione, la pazienza è per la conversione.
Non resta dunque che un’ultima sfumatura di tempo, il tempo unificato in cui l’uomo atteso, curato, accompagnato dalla premura misericordiosa del suo Signore, sboccia alla sua piena realizzazione umana, producendo il suo frutto, che è accoglienza della redenzione e della misericordia del Figlio di Dio.
Raffaela
Comunità Kairòs
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