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André Louf – dimorare nella debolezza e nella tentazione

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DIMORARE NELLA DEBOLEZZA E NELLA TENTAZIONE

PER SPERIMENTARE LA GRAZIA

Riportiamo una meditazione di Andrè Louf, già Abate di Mont-Des-Cats che con il suo sapiente discernimento diviene non solo uno dei protagonisti dell’aggiornamento conciliare nel monastero e nell’ordine trappista, ma una delle figure spirituali di maggiore autorevolezza nella Chiesa dei nostri giorni. I suoi testi, tradotti anche in italiano, abbracciano tematiche essenziali per il vissuto della fede nel mondo contemporaneo: accanto ai commenti in più volumi al Vangelo della domenica (Beata debolezza), troviamo testi sull’esistenza cristiana (Sotto la guida dello Spirito), sulla preghiera (Lo Spirito prega in noi), sulla paternità spirituale (Generati dallo Spirito), sull’interiorità e la vita di comunione (La vita spirituale), sull’umiltà.

Nato a Lovanio (Belgio) nel 1929, era entrato in monastero nel 1947, poco dopo la II Guerra Mondiale.

Nel 1963 era stato eletto abate di Mont-des-Cats, ministero che ha svolto per 34 anni, guidando la sua comunità con sapienza e discernimento negli anni del Concilio Vaticano II e del successivo “aggiornamento” in vista di una rinnovata fedeltà del monachesimo alle istanze evangeliche.

Nel 1997, lasciata la carica abbaziale, si era ritirato a vivere da eremita presso le suore benedettine di Santa Lioba, in Provenza (Francia).

Nel 2004, su invito di Papa Giovanni Paolo II, aveva composto le meditazioni per la Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo.

È morto nel monastero di Mont-des-Cats (Francia) lunedì 12 luglio 2010.

 

 

Dio resta incrol­labilmente fedele a noi: ebbene, questa fedeltà appare in ma­niera clamorosa nell’ora della tentazione. Non c’è fede che non sia tentata, come non c’è albero che non debba essere potato per portare più frutto (Gv 15,2). La Bibbia non ripete forse che la fedeltà di Dio si afferma, si rende visibile soprattutto nella tentazione? E inoltre, non ci ricorda forse quanto è necessario per noi attraversare la tentazione per crescere nella fede? Ascol­tiamo Paolo: ‘Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla’ (1Cor 10,13). Ma c’è so­prattutto il famoso testo con il quale Giacomo inizia in modo così rude la sua lettera: ‘Miei fratelli, considerate piena letizia quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la perseveranza. E la perseveranza perfe­zioni l’opera in voi, perché siate perfetti e integri, senza manca­re di nulla’ (Gc 1,2-4).

 

La carne debole

 

Ma l’uomo sopporta di essere costantemente nella tentazione per diventare così miracolo continuo della grazia di Dio? L’e­vangelo ci ricorda in svariati modi che i nostri progressi su que­sta strada avvengono assai di rado in linea retta. La notte precedente la passione, quando Gesù aveva accennato con discre­zione al modo poco coerente con cui i discepoli avrebbero cer­cato di camminare sui suoi passi, Pietro, come suo solito, aveva protestato energicamente: ‘Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai!’. E dopo che Gesù gli fece no­tare che proprio lui stava per rinnegarlo, Pietro non esitò a pun­tare ancora più in alto: ‘Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò’ (Mt 26,30-35). Subito dopo cadde, nonostante la duplice esortazione di Gesù: ‘Vegliate e pregate, per non ca­dere in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole’ (Mt 26,41).

Nessuno può sottrarsi a queste parole di Gesù: anche se il no­stro spirito è più o meno ardente, la nostra carne rimane incura­bilmente debole. Nessuno può sfuggire a questa disarmonia che arriva fino a una vera lotta tra le due realtà. In qualsiasi espe­rienza cristiana bisogna vivere così: combattuti tra il fervore e la debolezza, bisogna cioè vivere nella tentazione. Pietro, che diventerà il testimone principale della resurrezione di Gesù e sul quale poco dopo verrà edificata la chiesa, è anche quello che ha dovuto confrontarsi per primo con la tentazione e che, per primo, è stato trovato mancante ed è caduto. Il rinnegamento della notte della passione non è d’altronde privo di precedenti, Pietro non è al suo primo passo falso. Quando Gesù annunciò per la prima volta la passione e la resurrezione che lo attendeva­no, Pietro si preoccupò immediatamente di distrarlo da queste idee cupe: `Dio te ne scampi, Signore! Questo non ti accadrà mai!’. Ma Gesù, voltandosi, disse a Pietro: `Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini!” (Mt 16,22-23). Solo quando il Padre lo assiste in modo particolare Pietro è in grado di confessare che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente: rivelazione che gli sfugge totalmente quando si lascia guidare dalla carne e dal san­gue (cf. Mt 16,17), cioè quando si basa su modi di vedere umani.

Per precederci nella chiesa e nell’amore di Gesù, Pietro deve innanzitutto precederci nella tentazione. Questo legame è chia­ramente espresso da Gesù stesso quando annuncia il rinnega­mento di Pietro, secondo l’evangelista Luca: ‘Simone, Simone,ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli’ (Lc 22,31-32).

[…] Il vaglio è l’immagine della grande tentazione alla fine dei tempi (c£ Mt 3,12), la fede messa alla prova, la conversione che segue la tentazione. Sarà solo dopo essersi dibattuto fino all’estremo in questa tentazione e in que­sto processo di conversione che Pietro potrà, grazie alla propria esperienza, confermare e guidare i propri fratelli nella stessa pro­va. E proprio grazie all’esperienza vissuta che Pietro può sapere come la debolezza e la grazia procedono insieme e si accordano l’una all’altra in ogni discepolo di Gesù.

Bisogna sottolineare il fatto che, per nominare un capo, Ge­sù non cerca un modello di virtù e di perfezione da poter essere contemplato e imitato, secondo le possibilità, dai cristiani di tutti i tempi. Se così fosse, Pietro non avrebbe potuto essere preso in considerazione. I tratti che ci hanno lasciato di lui gli evan­geli ce lo descrivono in modo trasparente e pittoresco: un gran brav’uomo, rude pescatore, impetuoso e avventato, non sem­pre capace di dominare i propri sentimenti. E evidentissimo che ama Gesù e gli è perdutamente affezionato: più commette sba­gli e si fa rimproverare da Gesù, e più lo ama. No, Pietro non è un modello di virtù, ma è capace di trasmettere l’esperienza che lui stesso ha vissuto grazie all’amore per Gesù e ne potrà sempre rendere testimonianza. Certamente la tentazione l’ha fat­to traballare, ma al cuore di questa e nel più profondo della ca­duta è stato meravigliosamente liberato da Gesù.

In realtà, tutto è cominciato già al momento della chiamata: il racconto di Luca lascia trasparire il dialogo avviato tra la de­bolezza di Pietro e la forza della grazia (c£ Lc 5,1-11). All’ini­zio Pietro partecipa appena all’evento, alla fine di una brutta nottata: non che non sia riuscito ad addormentarsi, ma non ha proprio dormito del tutto, ha dovuto pescare tutta notte senza alcun risultato. Pietro non doveva certo essere di buon umore mentre controllava le reti, non lontano da quel giovane rabbi intento ad annunciare qualche messaggio ai suoi ascoltatori: se Pietro ascoltava, lo faceva in modo distratto. Non sembra che Gesù avesse notato Pietro che, da parte sua, non conosceva an­cora Gesù; tuttavia è proprio quest’ultimo a fare il primo passo: sale sulla barca di Pietro e gli chiede di allontanarsi da riva. La folla lo incalzava ed egli voleva parlarle dalla barca, a una certa distanza. Pietro fu indubbiamente colpito dal fatto che Gesù si rivolgesse a lui: ecco che Gesù gli parla da uomo a uomo, gli chiede un servizio. Pietro non resta insensibile: acconsente alla richiesta e si trova obbligato a prestare attenzione alle parole di Gesù. A questo punto arriva il secondo passo di Gesù: termi­nato il discorso, invita Pietro a pescare: ‘Prendi il largo e calate le reti per la pesca’. Tra Gesù e Pietro è nata una certa simpa­tia, Pietro può difficilmente rifiutare, anche se sa che in quella zona non ci sono pesci. Accenna a una protesta ricordando lo scacco della notte, ma finisce per arrendersi alla proposta di Gesù. Intuisce forse che Gesù può rimediare a quell’insuccesso? In ogni caso, Pietro si rivolge ora a Gesù in modo familiare, quasi inti­mo: anche in mancanza di pesci ‘sulla tua parola getterò le re­ti’. 

Questo abbozzo di fiducia permette a Gesù di porre un nuovo gesto: il miracolo della pesca. Pietro prende molti più pesci di quanto avrebbe mai potuto sperare, addirittura più di quanti ne potessero contenere le reti. Ha bisogno di aiuto e tutte e due le barche si riempiono fino quasi ad affondare. Pietro potrebbe adesso ringraziare Gesù per il prodigio insperato ma, nel frat­tempo, qualcosa è avvenuto in lui: la pesca miracolosa non gli ha soltanto fatto dimenticare la brutta notte. Molto più in pro­fondità dello scacco umano, la pesca ha messo a nudo in lui uno scacco ben più grave e fondamentale. Attraverso il miracolo Gesù ha improvvisamente colpito il peccato di Pietro: ‘Al vedere que­sto, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: `Si­gnore, allontanati da me che sono un peccatore!”.

Pietro non dice: rabbi, maestro, bensì Kyrios, Signore: è il nome riservato a Dio. In Gesù, Pietro ha riconosciuto Dio; nello stes­so istante prende coscienza di essere solo un peccatore. E qual­cosa di estremamente normale: appena Gesù si rivela, il nostro peccato è messo in luce; e viceversa: ci è impossibile vedere ve­ramente il nostro peccato finché non siamo nella luce di Gesù.

Pietro viene così messo a confronto con lo scacco che rappre­senta per se stesso e che osa svelare a Gesù. Porta in sé lo scac­co più nascosto, più desolante e all’improvviso ne prende co­scienza: non è nient’altro che un poveraccio, addirittura un pec­catore. E come peccatore, è convinto di non aver nulla a che fare con Gesù, né Gesù ha nulla a che fare con lui: ‘Allontanati da me che sono un peccatore!’.

Enorme sorpresa! E esattamente il contrario che è vero: la confessione stessa di Pietro permette a Gesù di compiere un ul­timo passo per mettere alle strette Pietro, a meno che non sia stato Gesù a provocare la confessione di Pietro. In ogni caso, il riconoscimento e la confessione del peccato obbliga entrambi a riconoscersi vinti. Non appena Pietro confessa il suo peccato, Gesù può agire e perdonare; non appena la ferita è scoperta, Gesù può esercitare la sua potenza guaritrice e, per così dire, ricostruire Pietro, ricrearlo: ‘D’ora in poi sarai pescatore di uomini‘. Non è per nulla sorprendente che, nel momento stesso in cui Gesù chiama Pietro, si imbatta nel suo peccato. Gesù non va in cerca di nessuna qualità eccezionale nei suoi primi discepoli: quello che cerca è la loro debolezza, i loro scacchi inconsci, le loro col­pe insospettate, tutte quelle zone malate di ogni uomo che han­no bisogno del suo amore, che possono essere colte e assunte solo dall’amore, sulle quali il suo amore può intervenire con la sua onnipotenza. Gesù è venuto fino a noi proprio per prendere su di sé la nostra debolezza e per trasformarla in forza. E morto una volta per tutte al peccato e il Padre l’ha risuscitato dai mor­ti per una vita nuova.

 

 

La forza di Dio nella debolezza

 

Una delle più antiche professioni di fede della chiesa, e una delle più convincenti, citata da Paolo nella sua seconda lettera ai Corinti, esprime chiaramente questa tensione salutare tra la tentazione e la vittoria, tra la debolezza e la forza, fino ad applicarla alla pasqua di Gesù: ‘Egli fu crocifisso per la sua debo­lezza, ma vive per la potenza di Dio’ (2Cor 13,4). Gesù fu cro­cifisso ed è morto a causa della debolezza dell’uomo, debolezza che ha preso su di sé fino all’estremo; ma a partire da questa debolezza è risuscitato e ora vive per la potenza di Dio. Proprio in questa debolezza, che è la nostra, Gesù ha incontrato la po­tenza di Dio, ed è a partire da questa debolezza che Dio lo ha risuscitato a nuova vita. Anche per Gesù la debolezza dell’uo­mo è stata il cammino che gli ha permesso di incontrare la po­tenza del Padre.

Ecco perché il discepolo che vuole servire Gesù nel suo cam­mino deve necessariamente accettare a sua volta la propria de­bolezza e quindi la tentazione. Dopo che Gesù ha sofferto la nostra debolezza e ne è morto per risorgere, la potenza di Dio è nascosta al cuore di ogni debolezza umana, come un seme che si prepara a germínare grazie alla fede e all’abbandono. Fino a quando ci opponiamo in mille modi alla nostra debolezza, la po­tenza di Dio non può agire in noi. Naturalmente possiamo fare qualche sforzo per correggere un po’ la nostra debolezza, ma in realtà non serve a nulla: la meraviglia della potenza di Dio e la meraviglia della nostra conversione restano al di fuori della no­stra portata.

Cerchiamo di risolvere i nostri problemi con un misto di buona volontà e di generosità, facciamo del nostro meglio per condurre una vita virtuosa e giusta, ci appoggiamo su buoni pro­positi e sulle nostre energie naturali, tentiamo di farcela a parti­re dalla nostra lealtà e generosità… Tutto questo dura per un po’, finché non rischiamo la disfatta e arriviamo al bordo del precipizio. Grazie a Dio! Altrimenti non avremmo mai potuto convertirci e saremmo rimasti al servizio delle nostre illusioni e dei nostri idoli, ignorando l’autentica fede, per quanto possa essere piccola… come un granello di senape. Sarà addirittura ne­cessario che noi un giorno sprofondiamo, per fare l’esperienza concreta della nostra debolezza, quella debolezza in cui potrà finalmente dispiegarsi la potenza di Dio. Come è capitato a Pietro, che non poteva riconoscere Gesù finché annoverava se stesso tra i giusti, ma che si colloca tra i peccatori non appena Gesù si rivela veramente a lui. Come ha detto a chiare lettere, Gesù non viene per i giusti ma solo per i peccatori (cf. Mt 9,13).

E qui in gioco un dato essenziale di ogni esperienza cristiana, che è indubbiamente l’unica condizione per essere toccati dalla grazia e per potervi acconsentire. Paolo esprime questo dato più o meno negli stessi termini: costretto dagli avversari a elencare tutti i propri meriti, nella speranza di far accettare la sua testi­monianza, comincia con il vantarsi di tutto quello che ha rice­vuto e che lo pone in buona luce agli occhi di quanti dubitano della sua missione. Ma alla fine preferisce vantarsi delle proprie debolezze: ‘Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un in­viato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non va­da in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: `Ti ba­sta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie de­bolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi com­piaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono de­bole è allora che sono forte’ (2Cor 12,7-10). In cosa consista concretamente questo ‘inviato di Satana’ incaricato di schiaf­feggiare Paolo non interessa il nostro discorso. Tuttavia, dal con­testo, sembra trattarsi di una forma di tentazione nella quale Paolo era messo di fronte in modo bruciante alla propria debo­lezza, al punto che cercava rifugio nella preghiera e supplicava il Signore di liberarlo.

 Forse Paolo aveva paura di fronte alla propria debolezza? Era forse un’idea per lui intollerabile? In ogni caso, Gesù non cede: la tentazione non viene risparmiata a Pao­lo, perché è molto più vantaggioso per lui restare nella tentazio­ne in modo da imparare come la potenza di Dio è capace di agi­re al cuore della debolezza. Né la forza di Paolo, né la sua vitto­ria personale hanno qui importanza, ma unicamente la sua perseveranza nella tentazione e, al contempo, nella grazia. La grazia non viene a innestarsi sulla nostra forza o sulla nostra virtù, ma unicamente sulla nostra debolezza. Allora basta ampiamen­te, e noi siamo forti solo quando la nostra debolezza ci diventa evidente: è il luogo benedetto in cui la grazia di Gesù può sor­prenderci e invaderci.

 

 

Riconciliarsi con la propria debolezza

 

Quanto abbiamo appena detto non è immediatamente evidente nell’esperienza quotidiana della vita spirituale. La maggior par­te di noi è inquieta, se non addirittura smarrita, quando ci ap­pare, in modo più o meno brutale, la nostra debolezza. Alcuni arrivano perfino a fuggire: bisogna aver già una certa esperien­za dell’amore di Dio per osare permanere nella debolezza e ri­conciliarsi con il proprio peccato. Alcuni non riusciranno mai a riconoscere la minima traccia di debolezza in se stessi, il che è molto grave. La vita di costoro può sembrare molto generosa, perché fanno degli autentici sforzi, ma nel contempo sarà sem­pre un po’ rigida e forzata: una vita in cui l’amore autentico non può sgorgare; sono persone alla soglia dell’indurimento, prossi­me all’accecamento spirituale.

Grazie a Dio, molto più spesso non è così: è più frequente che noi conosciamo bene la nostra debolezza ma senza sapere come gestirla. Essa ferisce inconsciamente l’immagine ideale di noi stessi che portiamo sempre con noi. Spontaneamente pen­siamo che la santità va ricercata nella direzione opposta al pec­cato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debo­lezza e dal male e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce con noi: la santità non si trova all’op­posto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno. Sfuggire alla de­bolezza significherebbe sfuggire alla potenza di Dio che è all’o­pera solo in essa. Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e nello stesso tempo abban­donati alla misericordia di Dio. Solo nella nostra debolezza sia­mo vulnerabili all’amore di Dio e alla sua potenza. Dimorare nella tentazione e nella debolezza: ecco 1’unica via per entrare in con­tatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericor­dia di Dio.

E quanto è capitato a Pietro: aveva appena rinnegato il suo Maestro per la terza volta, che ‘il Signore, voltatosi, guardò Pie­tro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva det­to: `Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’. E uscito, pianse amaramente’ (Lc 22,61-62). Che cosa ha signifi­cato quello sguardo per Pietro, possiamo solo immaginarcelo. Non fu certo una condanna: ‘Non sono venuto per condannare’, di­ce Gesù stesso (Gv 12,47). Non fu neanche un rimprovero, ma solo un amore dolce e ardente: ‘Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. (…) Come un padre è tenero con i suoi figli, così è tenero il Signore’ (Sal 103,8.13). E que­sto proprio nel momento in cui Pietro è venuto meno nei con­fronti di Gesù e si scopre in flagrante delitto di tradimento. In quella precisa situazione lo sguardo d’amore di Gesù lo tocca e lo ferisce e, nello stesso istante, gli offre il suo perdono d’a­more.

 E non si limita ad accordargli il perdono, ma chiama Pie­tro a una nuova vita: da quel momento, infatti, Pietro è diven­tato un altro uomo, il suo intimo vacilla, il suo cuore si scioglie, ora sa cos’è l’amore. ‘Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi’ (Rm 5,8). Pietro scoppia in lacrime, lacrime che testimo­niano la ferita prodotta dallo sguardo di Gesù, lacrime amare, annota Luca. Questa è senz’altro l’impressione suscitata in co­loro che hanno sorpreso Pietro in singhiozzi, ma noi possiamo anche pensare che, nel fondo del suo cuore, sono state lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù infatti, con quello sguardo d’a­more, non ha abbandonato Pietro alla sua sofferenza e alla sua disperazione, ma gli ha fatto dono, di persona e all’istante, di un nuovo segno del suo amore.

Non sarà l’ultima volta che lo sguardo di Gesù verrà a distur­bare Pietro in modo così salutare, sconvolgendolo in profondi­tà. L’occasione più commovente sarà nel giorno stesso di Pasqua, ma gli evangelisti non ci hanno lasciato alcun particolare sull’in­contro tra Pietro e Gesù risorto. Solo una breve testimonianza, che costituisce forse il kérygma, il più antico annuncio della re­surrezione: ‘Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Si­mone’ (Le 24,34). Anche Paolo, quando elenca le apparizioni del risorto, vi include con risalto l’apparizione a Pietro, citata per prima: ‘Fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, ed è apparso a Cefa e quindi ai dodici’ (1Cor 15,4-5). Secondo altre testimonianze, sembra che Gesù sia apparso dap­prima a Maria Maddalena (c£ Mc 16.9) e successivamente a due discepoli ‘mentre erano in cammino verso la campagna’ (Mc 16,12). Ma proprio questi due, che noi conosciamo meglio – grazie al racconto di Luca – come i discepoli di Emmaus (cf. Le 24,13-35), tornano la sera stessa di Pasqua a Gerusalemme per ascoltarvi la buona novella dalla bocca degli apostoli: Gesù è ap­parso a Pietro.

Ecco per Pietro un altro profondo sconvolgimento. Forse si trovava ancora sotto il peso della sua viltà e del rinnegamento di due giorni prima: Gesù era morto e sepolto, non solo per lui, ma anche per gli altri apostoli, e Pietro si sentiva responsabile di quella morte. Ben lungi dal seguire Gesù fino alla morte, co­me aveva promesso non senza temerarietà, l’aveva molto sem­plicemente abbandonato e proprio nel momento più critico. Al­l’alba del mattino di Pasqua c’era stato il problema della tomba vuota, e Pietro vi era corso assieme a Giovanni, per vedere e fare la stessa costatazione. Era vero: il Signore era scomparso e nessuno era in grado di dire chi l’avesse preso o dove l’avesse trasportato. Per Pietro tutto questo era ancor più sconcertante. Finché, all’improvviso… quella stessa voce calda, quello stesso sguardo traboccante d’amore: Pietro perdonato all’istante e per sempre e, nel contempo, guarito dalla sua debolezza più profonda e ristabilito al suo posto proprio a causa di quella debolezza. Le lacrime sgorgarono di nuovo, ma questa volta indubbiamente lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù amava quindi Pietro così intensamente da venire a cercarlo fin nel rinnegamento e nel tra­dimento per poterlo incontrare in profondità. In quel radioso mattino di Pasqua, Pietro fu il primo dei peccatori perdonati.

Giovanni ha riservato 1’epílogo di questa avventura per la fi­ne del suo evangelo. Si tratta di quella scena così intima e commovente in cui Gesù, per tre volte, chiede a Pietro se lo ama più degli altri (Gv 21,15-17). E per tre volte anche Pietro può dichiarargli il proprio amore, così come per tre volte l’aveva rin­negato: ‘Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene!’. Con ogni probabilità, esattamente come quell’altra peccatrice dell’e­vangelo – Maria Maddalena – Pietro ora ama Gesù molto più di prima: anche a lui infatti è stato molto perdonato (Lc 7,47). Gesù ne trae immediatamente le conseguenze: ‘Pasci le mie pecorel­le’. Chi ha potuto esperimentare un simile sgorgare di amore e di misericordia sarà anche il primo e il migliore testimone del­l’amore. ‘E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli’ (Lc 22,32).

 

Fonte: Andrè Louf, “Sotto la guida dello Spirito”, Edizioni Qiqajon, Magnano(BI), 1990, pp. 44-54.

 

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