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Baccanti nel Rinascimento

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Questa rubrica vuole porre all’attenzione dei lettori di Tuttavia la capacità della poesia e delle arti figurative di rappresentare l’immaginario delle varie epoche storiche e delle stagioni culturali che si sono succedute nel nostro Occidente a partire dal Basso Medioevo, cioè da quando si è andata costruendo la civiltà delle città e del ceto medio che in esse si è andato affermando. Abbiamo definito pittura e poesia “linguaggi dell’anima” per la loro capacità di coinvolgere in modo integrale chi ne fruisce, ovvero in modo da mobilitare, oltre alla dimensione razionale del comprendere, anche gli aspetti affettivi, emotivi e volitivi dell’esistenza.

A tale scopo saranno sottoposti quindicinalmente dei testi poetici e iconici paralleli, reinterpretati quali “oggetti culturali” per la loro capacità di esemplificare l’immaginario di un’epoca. Alla poesia e alla pittura potrà affiancarsi anche la musica, quando gli autori riterranno di proporre qualche fonte musicale, coeva oppure a noi contemporanea, capace di evocare efficacemente lo spirito dell’epoca trattata. Il parallelismo potrà anche strizzare l’occhio agli insegnanti – quali sono i due autori – che volessero istituire nessi più stringenti tra i vari linguaggi, nella convinzione che i ragazzi amano le contaminazioni e soprattutto si lasciano coinvolgere volentieri nello spazio della creatività e dell’interpretazione.


LE BACCANTI: OSCURAMENTO DELLA RAGIONE

Poesia e pittura testimoniano, attraverso l’esperienza poetica di Poliziano e l’opera scultorea di Donatello e pittorica di Klimt, la persistenza del tema bacchico nell’immaginario di epoche lontane nel tempo, a partire dalla sua origine classica connessa al culto di Dioniso. Qui offriamo la conclusione bacchica della Favola di Orfeo di Poliziano e le rivisitazioni della “baccante” Giuditta in opere di Donatello e Klimt.

ANGELO POLIZIANO: IL CORO DELLE BACCANTI (DALLA FAVOLA DI ORFEO)

(1470-1483)

Ognun segua, Bacco, te!
310 Bacco, Bacco, euoè!
Chi vuol bevere, chi vuol bevere,
venga a bevere, venga qui.
Voi ‘mbottate (:riempite le botti) come pevere (:imbuti),
i’ vo’ bevere ancor mi!
315 Gli è del vino ancor per ti,
lascia bevere inprima a me.
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
Io ho voto già il mio corno:
320 damm’ un po’ ‘l bottazzo qua!
Questo monte gira intorno,
e ‘l cervello a spasso va.
Ognun corra ‘n za e in là
Come vede fare a me.
325 Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
I’ mi moro già di sonno:
son io ebria, o sì o no?
Star più ritte in piè non ponno:
330 voi siate ebrie, ch’io lo so!
Ognun facci come io fo:
ognun succi come me!
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!
335 Ognun cridi: Bacco, Bacco!
E pur cacci del vin giù.
Po’ co’ suoni faren fiacco (:strage):
bevi tu, e tu, e tu!
I’ non posso ballar più.
340 Ognun gridi: euoè
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, euoè!

Angelo Poliziano fu una delle figure più importanti dell’Umanesimo fiorentino, al tempo di Lorenzo de’ Medici (seconda metà del Quattrocento). Tra le sue opere in volgare si annovera la Fabula di Orfeo, rifacimento teatrale del celebre mito di Orfeo ed Euridice, già narrato da Virgilio nelle sue Georgiche. Un mito pagano, dunque, rivisitato in chiave allegorica e per noi emblematico di un certo modo di interpretare l’umano in epoca ormai rinascimentale.

Chi è Orfeo? È il poeta che perde la sua amata, Eurydice, e che tenta di recuperarla scendendo agli Inferi, ammaliando le divinità infernali e ottenendo da esse la promessa di potersela riportare in vita a patto di non voltarsi indietro prima di giungere alla meta. Si sa che Orfeo, invece, non resisterà alla tentazione di voltarsi e per questo perderà per sempre la sua amata. Avendo giurato a se stesso di rinunciare per sempre all’amore, e rivolgendosi invece verso l’amore omosessuale, nel mito classico viene straziato per vendetta dalle Baccanti, ma sopravvive pur con la testa mozza allo strazio, riaffermando l’immortalità della poesia. La sua lira sarà deposta in cielo da Apollo e la sua poesia, attraverso il fiume Ebro, giungerà a Lesbo, patria di Saffo e Alceo (sul motivo del sopravvivere allo scempio si ascolti la canzone di De André a chiusura).

Ma in Poliziano il finale cambia. Orfeo non rinasce e sopravvive allo scempio delle Baccanti per riaffermare il supremo valore della poesia, ma è straziato per sempre, e le Baccanti celebrano il loro trionfo con un inno a Bacco che è il nostro testo e che conclude l’opera. Le Baccanti, nel mito greco, sono divinità devote a Dioniso o Bacco, dio del vino, e rappresentano la dimensione irrazionale, furiosa, violenta e oscena dell’umano. La loro presenza sulla scena letteraria tardomedievale e cristiana contiene significati che val la pena scrutare proprio alla luce del testo proposto.

Il coro delle Baccanti polizianeo mostra la spensieratezza carnascialesca del bere senza limite. Tutti sono invitati a bere e a vuotare i propri calici fino a perdere coscienza, a veder tutto che gira: il cervello a spasso va. L’umano è del tutto occultato dal sonno dell’ubriachezza, e la coscienza chiede a se stessa se dorme o è sveglia. Bere si accompagna a gridare e a fare strage, con un progredire dell’animalità degno dell’inferno dantesco ma colorato qui di una sorta di festosità trasgressiva. Le Baccanti sono fiere di avere fatto a pezzi Orfeo, simbolo della poesia e della bellezza, cioè di quei valori che la civiltà rinascimentale andava celebrando. L’ultima parola, di fronte alle crudezze della storia del tempo, è delle terrificanti Baccanti, che possono godere dello strazio di un uomo e inneggiare alla più bieca dissipazione.

Orfeo, nel mito classico, aveva perso la sfida dell’elevazione spirituale voltandosi verso gli Inferi, ma almeno aveva mantenuto, profanamente, la potenza quasi religiosa della poesia che sopravvive alla violenza delle Baccanti. L’umano, nel mito originario, soccombeva alla divinità ma sopravviveva all’animalità. Non così qui: l’umano non solo viene punito dalla divinità ma anche annientato dalla furia animalesca delle Baccanti, figura inquietante di tutte le deformazioni dell’umano che si susseguiranno fino ai nostri giorni.

Dal web: La violenza ha l’ultima parola

Giuditta, la baccante virtuosa

Donatello, Giuditta e Oloferne, Firenze, Palazzo Vecchio (Sala dei Gigli).

Una Baccante che la cristianità interpreta come figura virtuosa è Giuditta. La storia biblica è nota: il generale assiro Oloferne ha assediato Betulia e la vedova Giuditta offre se stessa per salvare la città. Elegantissima, esce di notte dalle mura, raggiunge l’accampamento nemico, e dopo avere sedotto il comandante vinto dall’ebbrezza, lo uccide nel sonno. Il più originale accostamento, seguito poi da un filo artistico che si snoda fino a Klimt, tra fonti classiche riferite al mito di Bacco, e fonti cristiane dell’Antico Testamento, è quello proposto da Donatello nel gruppo bronzeo raffigurante Giuditta e Oloferne, attualmente ubicato al Palazzo Vecchio. Nel basamento troviamo infatti scene bacchiche, mentre il gruppo scultoreo rappresenta Giuditta e Oloferne. È originale in quanto non rappresenta, come avevano già fatto Andrea Mantegna o Sandro Botticelli, il momento in cui Giuditta esce dalla tenda di Oloferne con la testa dell’uomo nella mano sinistra, o nell’atto di introdurla nel sacco, ma nell’istante più cruento e drammatico, in cui la testa sta per essere staccata dal corpo, con un colpo di scimitarra.

 Giuditta viene interpretata nella cultura medievale come Sanctimonia-Continentia-Humilitas, trionfo della Santità, dell’Umiltà e della Castità su Oloferne-Luxuria-Superbia. Questa visione permane nella cultura neoplatonica fiorentina, in cui però si aggiunge l’associazione di Giuditta alla Repubblica democratica, e di Oloferne alla Tirannia. Secondo Platone infatti il buon governo è caratterizzato da saggezza e sobrietà, mentre la tirannia dalla smodatezza. Il gruppo donatelliano sarebbe quindi allusivo del buon governo di Cosimo, che si oppone alla minaccia viscontea. Secondo un’altra interpretazione Giuditta sarebbe il simbolo della Chiesa, e Oloferne dell’Islam, in considerazione del fatto che nel 1453 Costantinopoli era stata presa dai Turchi e che Niccolo V e Callisto III cercavano di contrastarne  l’avanzata. In seguito alla Controriforma Giuditta diviene addirittura anticipazione veterotestamentaria della figura della Vergine che nei Vangeli sconfiggerà il Demonio.

Queste letture possibili mantengono però sullo sfondo il tema della donna sanguinaria, intrisa di eroismo e crudeltà, dal potere seduttivo e distruttivo capace di neutralizzare la forza virile per vendetta. Giuditta è come una Baccante, con la stessa furia di queste compie un atto irreversibile. È pur sempre una figura del desiderio, dell’inganno mulìebre praticato con la beltà e l’abilità retorica, usate per sedurre e poi attuare un omicidio, nonostante l’autorizzazione divina. Non è quindi abusivo trovare la necessaria premessa figurativa alla tragedia dell’assassinio da parte di Giuditta, nel tragico dionisiaco. Infatti anche Klimt, artista che rappresenta un essere femminile dalla doppia valenza angelica e diabolica, creatrice e distruttrice, si interesserà alle concezioni sullo spirito dionisiaco espresse da Nietzsche nel 1872 ne La nascita della tragedia, dipingendo nel 1897 una sua idea della tragedia e personificandola in una Baccante vestita di nero, sfarzosamente ingioiellata con due grandi orecchini d’oro e un collare prezioso, con uno sguardo funereo e assassino, che tiene fra le mani una maschera tragica, e in cui la mano destra che tiene la maschera ha la stessa aggressività della mano artigliata che tiene la testa di Oloferne in Giuditta.

IN MUSICA: Se ti tagliassero a pezzetti di Fabrizio De André

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