di Alessandra Turrisi
Colui che all’inizio degli anni Novanta ha rotto gli schemi del perbenismo a Palermo ha rischiato, negli ultimi tempi, di essere “istituzionalizzato”. C’è una famiglia senza casa? “Perché non va da Biagio Conte?”. La polizia si trova davanti un caso difficile e pietoso? “Vediamo se Biagio Conte ha posto”. Al pronto soccorso viene trasportato uno uomo malandato, magari ubriaco, senza nessuno al mondo? “Ora gli diciamo di andare da Biagio Conte”. E così, uno dopo l’altro, i “cittadini” di quel paese che è la Missione Speranza e Carità sono diventati più di mille, con le storie più varie: dalla giovanissima mamma sbarcata a Lampedusa con un fagottino tra le braccia all’ex professionista rimasto senza lavoro e abbandonato dalla famiglia, dal migrante artigiano pieno di risorse all’anziano malato e rifiutato. Pochi i “senzatutto” sui bordi delle strade, perché i potenziali inquilini di panchine e marciapiedi sono da Biagio Conte.
Ma cosa fa la città per questa missione dentro casa, albergo dignitoso di chi quella dignità rischiava di perderla per sempre? Qualche donazione ogni tanto e poi mille lacci e laccioli burocratici che rischiano di strangolare l’unico rifugio di chi vive ai margini della società. Esose bollette di luce, acqua e gas, senza riuscire a trovare una formula che possa sollevare la missione da questi costi; ma anche una cartella esattoriale da oltre 84 mila euro, conseguenza di un contenzioso col Comune per tasse sui rifiuti non pagate. E poi il colmo dei colmi: i locali di via Decollati, in cui da 12 anni ha sede della Cittadella del povero, non sono mai stati concessi ufficialmente dal Demanio alla missione Speranza e carità, che dunque risulta occupante abusiva e non può montare i pannelli solari da migliaia di euro donati dalle scuole e diventare energeticamente autonoma.
Roba da fare infuriare pure un santo. E, infatti, il fondatore della missione ha scelto per una volta il gesto eclatante della minaccia di lasciare le strutture e i loro ospiti perché gravato “dalla burocrazia e dall’indifferenza”, perché colpito dalla durezza dei cuori.
E mentre le istituzioni comunali e regionali dicono di volere risolvere i problemi burocratici che gravano sulla missione e la città si è mobilitata con ogni tipo di raccolta e di manifestazione di beneficenza, Biagio ha preso la croce e ha cominciato a camminare per chilometri. Prima nelle grotte e sulle alture attorno a Palermo, per pregare e mettersi in ascolto di Dio, poi nei quartieri periferici della città e, infine, lungo la costa verso Trapani. E’ tornato alla sua primigenia vocazione, quella del pellegrino in ricerca, che lo spinse oltre vent’anni fa a camminare da solo fino ad Assisi e poi a tornare a Palermo per stare accanto agli ultimi. Nessuna protesta, nessuna intenzione provocatoria, ma il desiderio di testimoniare ed evangelizzare. Incontrare l’altro con la croce sulle spalle, condividendo la sofferenza che ciascuno porta con sé, a prescindere dal proprio credo religioso o del proprio stato sociale. Portare la croce per le strade, lungo la statale verso Trapani, attraverso campagne e paesi, davanti alle chiese e nelle piazze, è un segno rivoluzionario in un mondo che questa croce multiforme la allontana in tutti i modi.
I cellulari di automobilisti distratti e ragazzi in motorino si sono scatenati per immortalare quella figura anacronistica di frate pellegrino, col saio verde e il capo coperto, attraversare le strade delle borgate palermitane e poi dei paesi della provincia. E’ stata un’incredibile esperienza di “comunione, fratellanza e unità – confida fratel Biagio appena tornato da Trapani -. Un’esperienza unica di solidarietà tra la gente che ho incontrato. Sono stato accolto con tanto amore e disponibilità. Il mio pellegrinaggio non è stato di protesta, ma di penitenza. È davvero impressionante quanta gente mi ha fermato per strada per sapere se avevo bisogno di qualcosa, persone di religioni diverse, anche atei. Alla fine avevo i piedi gonfi, ma ero pieno di speranza”.
{jcomments on}
Lascia un commento