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“Camminare al fianco dei giovani”. Intervista a Michele Tridente

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Con il sinodo dei giovani del 2018, papa Francesco ha inteso avviare e approfondire una riflessione – tanto teologica e spirituale quanto pastorale – connessa alla relazione fra i giovani e la fede. Dei contenuti dell’esortazione apostolica postsinodale Christus vivit, pubblicata alla fine del sinodo sui giovani, ne discutiamo con Michele Tridente. Vicepresidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana per il Settore giovani, Tridente è, dal 2018, responsabile del coordinamento giovani del FIAC.


 – Il mondo globalizzato e digitale offre ai giovani della nostra epoca tante opportunità in più rispetto al passato ma anche molteplici crisi e ferite capaci di condizionare profondamente il cammino esistenziale delle nuove generazioni. Quali sono, a tuo parere, le maggiori difficoltà che i giovani – in Italia e nel resto dell’occidente – incontrano nel loro percorso?

Una delle più grandi difficoltà è l’incertezza del futuro che origina paura e scoraggiamento. È sempre più difficile trovare un lavoro stabile che permetta di fare progetti di vita personale e familiare a lungo termine. Sempre più frequente è il fenomeno dell’emigrazione giovanile che, pur essendo carica di molte opportunità, dà luogo a uno sradicamento spesso doloroso dal proprio territorio di origine, dalla famiglia e dagli affetti.

Una seconda grande questione aperta è la sfiducia verso le istituzioni (tra cui anche la Chiesa), che genera allontanamento e disillusione. La politica viene spesso vista come lontana perché incapace di raccogliere credibilmente le istanze del mondo giovanile. Tale distanza è amplificata anche da un pregiudizio negativo del mondo adulto sul mondo giovanile che impedisce di guardare con positività al desiderio di impegnarsi, di cambiare il mondo, di mettersi a servizio degli altri che c’è in tanti di noi, come riconosce sapientemente il Sinodo.

Infine, c’è il rischio della tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata” (Evangelii Gaudium, 2), che ci porta a rinchiuderci in noi stessi e a non donare tutto il bello che abbiamo. È sempre più difficile per gli adulti farsi compagni di strada affidabili e testimoni credibili per noi giovani, fermandosi di fronte alle prime difficoltà di approccio e comunicazione. La sfida di ogni educatore è quella di stare dentro con attenzione e delicatezza a quelle che sono le crepe esistenziali di ciascuno. Esse possono essere esperienze belle ma anche ferite da curare, cambiamenti che causano fatica e smarrimento.

Si tratta dunque di camminare al fianco di ogni giovane per poterci ascoltare, prendendosi cura delle nostre fatiche. Significa imparare a conoscere l’unicità delle nostre difficoltà e delle nostre aspirazioni per condividerle e poter cogliere esse come un’opportunità per l’annuncio del Vangelo.

– Nell’esortazione Christus vivit, scritta all’indomani della chiusura del sinodo sui giovani, papa Francesco afferma che Cristo è il grande annuncio per tutti i giovani. Perché la fede è in grado di illuminare la vita dei giovani del nostro tempo?

Il rapporto con la fede è una questione nodale per l’esistenza di ogni uomo e si cadrebbe in errore se si pensasse a questo rapporto come sganciato dall’intero percorso di vita, dalle esperienze e dai contesti che ciascuno vive. La sete d’infinito, l’anelito a cose grandi, l’inquietudine interiore è presente nel cuore di ogni giovane. E questa inquietudine, che genera percorsi di vita e di fede spesso tortuosi e accidentati, va “accolta, rispettata e accompagnata” (DF 66) perché bisogna sempre “togliersi i sandali davanti alla terra sacra che è l’altro” (EG 169).

Anche per i giovani che hanno vissuto un cammino di iniziazione cristiana la fede non può essere data per scontata, ma è sempre una fede da generare (o da rigenerare), spesso dopo esperienze negative che hanno comportato allontanamenti o spesso rifiuti. La fede illumina la vita di ogni giovane perché ci fa scoprire il volto di un Dio che non è estraneo ma è Padre. Essa ci fa aprire alla promessa di futuro che Dio fa a ciascuno di noi, ci aiuta a guardare oltre le piccolezze della nostra condizione umana, ci dà il coraggio di sognare in grande e di fare passi coraggiosi nelle scelte di vita. E poi avere fede significa assumere lo stesso sguardo di Gesù sulla nostra vita, sulle nostre relazioni ed esperienze, sul mondo che abitiamo, imparando così a conoscere davvero noi stessi e a fare esperienza di Dio.

Infine, illumina l’esistenza perché, come diceva Benedetto XVI, chi crede non è mai solo: la comunità ci sostiene e genera continuamente la nostra fede. Spesso abbiamo una visione della fede riduttiva: siamo troppo concentrati a trasmettere una moltitudine di precetti invece che badare a ciò che veramente è essenziale. Riscoprire l’essenziale della nostra fede significa annunciarne la bellezza del mistero centrale: l’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto (EG 36), un Dio talmente innamorato dell’uomo che, nonostante le nostre debolezze e i nostri tradimenti, ancora ci ama e si fida di noi.

– Da membro dell’Azione Cattolica Italiana, sei impegnato ad annunciare il messaggio evangelico alle nuove generazioni. Quali sono, secondo te, le maggiori difficoltà connesse alla trasmissione della fede oggi in un contesto, come quello italiano, nel quale il cattolicesimo è divenuta la religione di una minoranza della popolazione?

Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca in cui la fede è ormai marginale e i cristiani sono una minoranza. Lo riconosce lucidamente Papa Francesco nel discorso alla Curia Romana del 21 dicembre scorso: “Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede […] non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata”. Questo cambiamento non ci deve far cedere allo sconforto o alla nostalgia di un passato glorioso, ma per rendere ragione della nostra fede dobbiamo avere la pazienza e il coraggio di interrogarci come persone e come comunità cristiana sulla qualità della nostra fede, sulla coerenza della nostra testimonianza, sulla fedeltà nell’evangelizzazione.

È vero che tante sono le difficoltà perché alcuni valori come la vita, la famiglia, l’accoglienza e la solidarietà non sono più riconosciuti e difesi, ma è altrettanto vero che tante sono le potenzialità del nostro contesto sociale e culturale. Primo fra tutti è essenziale riconoscere oggi che la nostra fede si misura sempre più con una società multiculturale e multireligiosa. La presenza di tanti giovanissimi e giovani di altre religioni e culture è una ricchezza straordinaria anche per i nostri percorsi di accompagnamento alla fede perché può aiutare a crescere nella consapevolezza della nostra fede attraverso il confronto con le peculiarità di ciascuno e la riscoperta delle vicinanze nelle differenze.

In una società sempre più multiculturale e multireligiosa, è importante cogliere il crogiolo delle religioni e delle culture come risorsa. Un altro aspetto che merita particolare attenzione è il mondo dei social media, diventato ormai soprattutto per i giovanissimi e i giovani un vero luogo di vita. Da educatori, siamo consci che questo nuovo aeropago è denso di opportunità di conoscenza e di relazione, ma anche carico di rischi: tocca a noi imparare ad abitarlo consapevolmente per aiutare chi ci è affidato a fare altrettanto.

– A tuo parere, perché Francesco nella Christus vivit si sofferma in modo particolare su tre termini quali discernimento, vocazione e missione?

Discernimento, vocazione e missione rappresentano il cuore del Sinodo. “Per realizzare la propria vocazione è necessario sviluppare, far germogliare e coltivare tutto ciò che si è. Non si tratta di inventarsi, di creare sé stessi dal nulla, ma di scoprirsi alla luce di Dio e far fiorire il proprio essere” (CV, 257), che si realizza pienamente solo nel donarsi agli altri. Ciò si può fare se ci esercitiamo nel discernimento, dandoci spazi di silenzio e di preghiera per riconoscere e costruire la nostra vocazione.

Solo attraverso la fatica del discernimento ed educando alla responsabilità delle proprie scelte, è possibile aiutare ogni giovane a comprendere la propria vocazione a cui si risponde con la vita di tutti i giorni, una risposta che allo stesso tempo è, inseparabilmente, felicità e rischio. Il discernimento vocazionale è qualcosa di complesso e per questo è fondamentale la presenza di bravi accompagnatori. La conversione missionaria, infine, a cui è chiamata tutta la Chiesa coinvolge a pieno i giovani non solo come destinatari, ma come protagonisti dell’evangelizzazione in particolare verso gli altri giovani.

Da un lato, infatti, Papa Francesco ci esorta a “ripensare i nostri piani di formazione, le nostre forme di apostolato e persino la nostra stessa preghiera affinché siano essenzialmente, e non occasionalmente, missionari” (Discorso al Forum Internazionale di Azione Cattolica, 27 aprile 2017). Non possiamo accontentarci di chi arriva, non è più tempo di attendere i giovani fermi nelle aule delle parrocchie. Siamo chiamati a chiederci come fare a incontrare tutti, anche e soprattutto quelli che non ci cercano. D’altro canto, ogni giovane è allo stesso tempo discepolo e missionario, chiamato a proporre con la forza della testimonianza la bellezza di una fede che cambia la vita e genera scelte. Si tratta certo di investire nella formazione all’apostolato ma nello stesso tempo di superare la tentazione dell’eterna preparazione senza essere mai pronti.  

– Nel vostro ultimo modulo formativo svoltosi nel novembre scorso e intitolato A cuore scalzo, avete riflettuto sui percorsi di accompagnamento alla crescita umana e spirituale delle future generazioni. Nello specifico, quali metodi e attività proponete ai giovani del nostro tempo in vista della trasmissione della fede?

L’Associazione ha riletto la scelta religiosa come primato della vita, che ci fa cogliere nell’incontro con Gesù la bellezza della nostra vita, in ogni stagione e in ogni situazione. Il percorso associativo è un cammino che parte dalla vita e valorizza le domande di senso più profonde. È la vita, nella sua concretezza, il luogo in cui si fa esperienza del senso dell’incarnazione: i desideri del cuore e le attese, le delusioni e le gioie sono le situazioni da cui partire per far cogliere che il Vangelo si intreccia pienamente con la vita dando senso all’esistenza.

Per ogni educatore, partire dalla vita è fondamentale per evitare la tentazione di annunciare il Vangelo a prescindere da chi si ha davanti, per non cadere nella sterilità di dare risposte a domande che nessuno si fa (Papa Francesco al Forum Internazionale di Azione Cattolica, 27 aprile 2017).

L’Ac investe da sempre in una formazione integrale. Chi svolge un servizio alla formazione dei giovani è chiamato ad investire sulla crescita integrale delle persone che gli sono affidate. Un educatore dovrebbe evitare la tentazione di guardare ai giovani del gruppo solo come ai prossimi responsabili associativi, ma anche come i cittadini, i padri e le madri, gli studenti e i lavoratori di oggi e di domani. Inoltre, crediamo nel valore della scelta del gruppo, perché nessuno si salva da solo, ma sempre all’interno della comunità.

La stessa scelta associativa non fa solo riferimento a un metodo o a un contesto organizzativo, quanto piuttosto all’alveo vitale all’interno del quale prende corpo e respiro l’intera proposta, luogo di dialogo e condivisione. Infine, siamo convinti che la qualità della proposta dell’Azione Cattolica si valuti a partire dalla sua capacità di essere popolare, cioè un percorso a misura di tutti. È necessario rifuggire il rischio di creare delle “dogane” che limitano l’accesso, crescendo nella consapevolezza, come afferma Francesco, che “tutti possono partecipare a partire da ciò che hanno e con quel che possono”.

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