Squarci Letterari – Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi: ricerca inesausta di senso e la condizione umana

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Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
[Continua a leggere]

Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, capolavoro contenuto nei Canti di Giacomo Leopardi, è un inno alla ricerca del senso. La sua portata formativa è immensa. Siamo davanti ad una meditazione sulla vita così come si presenta agli occhi di chiunque sappia, prima di dare risposte, cimentarsi con domande. E soprattutto con domande che abbiano origine non in fantasie metafisiche o mitologie consolatorie, bensì nello scandaglio acuto e senza sconti della vicenda umana.

Il testo è scandito da sequenze meditative imperniate su un’idea. Un pastore asiatico si improvvisa filosofo e rivolge delle domande alla luna. Domande con tutt’evidenza destinate a rimanere senza risposta. La luna, come la Natura delle Operette Morali (geniale, e sempre da far leggere in parallelo a questo, il Dialogo della Natura e di un Islandese), per la sua condizione, è concepita quale custode del senso delle cose. La luna dispone di un arco visivo più ampio di quello umano. Vede ogni cosa e sa ogni cosa. La luna è incontaminata (“vergine luna”, “intatta luna”, “candida luna”, “giovinetta immortal”) perché non è segnata dalla precarietà dell’esistenza. L’esistenza umana è precaria, come ben sottolinea la similitudine col vecchietto lacero e affannato.

Meditano abbastanza i nostri ragazzi sulla condizione umana? Sul limite che la connota? Vero: il poeta è impietoso. Tutti gli affanni della vita approdano nell’abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto oblia. Quando ai ragazzi si presenta la prospettiva leopardiana non sono molti coloro che si esimono dall’attribuire al poeta di Recanati le patologie più pervasive. Pessimismo, insoddisfazione, inquietudine, depressione, e via discorrendo. Nei versi del poeta la vita umana appare come una “sventura” fin dalla nascita, e di questo egli non sa darsi pace. In Leopardi – occorrerebbe evidenziarlo in classe – si concentra l’eterna domanda umana sul senso del vivere e del morire: che sia questo morir, questo supremo /scolorar del sembiante,/ e perir dalla terra, e venir meno/ad ogni usata, amante compagnia. Il poeta urla la sua protesta, ed in questo urlo egli rappresenta l’umanità intera, altro che pessimismo!

Di fronte a meditazioni di questa portata ci si chiede a volte di quanta filosofia e di quanta biologia ci sarebbe bisogno per cogliere la specificità dell’umano nel panorama dei viventi. Leopardi è sempre stato sensibile al modo in cui i viventi non umani partecipano della vicenda cosmica. O greggia mia che posi, oh te beata!,/ che la miseria tua, credo, non sai! Gli animali non sanno. Occorrerebbe fermarsi a lungo su questa beata ignoranza che tiene libera l’esistenza degli animali dall’affanno legato alla memoria e alla paura, vere tiranne dell’uomo come insegna la sapienza epicurea.

Il tedio. Vera cifra del nostro tempo giovanile, popolato da ragazzi annoiati e – direbbe un fortunato bestseller – “sdraiati”. Ma alle volte vien da chiedersi se il tedio leopardiano abbia davvero a che fare con l’indolenza che attanaglia i nostri giovani. Parliamone in classe, di queste cose. Parliamo del “fastidio che ingombra la mente” e delle dinamiche interiori che stanno dietro a questa singolare condizione di inquietudine, cui il poeta accede non con animo rassegnato e fatalista, ma con atteggiamento di stupore contestatario: altri forse potranno trarre beneficio dalla condizione umana. Ma a me la vita è male. Perché Leopardi arriva a queste conclusioni? Questa la posta in gioco di un vero e serrato dibattito non consolatorio tra ragazzi che hanno alle spalle meno di due decenni di esistenza ed adulti che mediamente hanno già vissuto mezzo secolo. Quale elemento, nella meditazione leopardiana, possiamo tacciare di pessimismo? C’è forse qualcuno in grado di professare ottimismo? Benissimo, si faccia avanti. Ma l’ottimismo deve anch’esso trovare le sue fondamenta razionali perché non si riduca a mera allegria da sballo.

Provoca, Leopardi. In senso etimologico. Stana tutte le pigrizie intellettuali e le invita a farsi avanti per trovare qualcuno in grado di dire che “le cose non stanno così”. Come stanno invece le cose? Potrà essere tacciato di materialismo meccanicista un uomo che popola tutto il testo di amore per la vita sol perché questo sentimento intenso non riesce ad approdare a sintesi metafisiche o religiose?

Credo che la portata formativa di questo testo leopardiano stia proprio in una sorta di educazione alla demitizzazione. Tutti i percorsi di ricerca del senso devono partire da una lettura di ciò che c’è. Si potrà – e forse si dovrà – obiettare a Leopardi che dire “la vita è sventura” forse è troppo, ma mentre formuliamo questa obiezione siamo invitati dal poeta stesso a trattenerci al di qua del ridicolo delle magnifiche sorti e progressive, che lui stesso avrebbe denunciato nella Ginestra. Non sarà sventura la vita, ma non è neppure una passeggiata trionfale. Questo strano concentrato di materia e di coscienza che è l’uomo, schiavo delle dipendenze più elementari e tuttavia libero di elevarsi alle più alte vette dello spirito, rimane per ciò stesso una domanda aperta. Non sarebbe meglio non essere umani? si chiede alla fine il poeta. Essere elementi naturali privi di coscienza come gli uccelli o fenomeni atmosferici come il tuono? Forse la felicità sta nel non umano. O forse no, conclude tragicamente il poeta. Forse la felicità non sta da nessuna parte. Ma forse, forse, forse. Negli ultimi undici versi risuona per tre volte “forse”.

Forse. Educare al forse. Tenere aperta sempre la Domanda. Una Domanda da fare ad alta voce nelle classi. Sempre. Perché essere adulti capaci di porre a se stessi, ai testi che incontrano e ai loro allievi le giuste domande a cui neppure loro sanno rispondere è il modo più nobile per onorare la professione di insegnanti ed il ruolo di educatori.

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