di Giuseppe Savagnone
Esiste il tempo? La festa del Capodanno sembrerebbe la risposta più evidente a questa domanda apparentemente assurda. Anche quest’anno, a mezzanotte meno un minuto, cominceremo a scandire, a ritroso, con crescente eccitazione, i secondi che ci separano dall’inizio del 2016 e, quando l’ora fatidica sarà scoccata, la saluteremo – nelle piazze affollate, nei locali pubblici o nelle case private – con gioioso entusiasmo, grandi brindisi augurali e abbracci reciproci. Ci saremo lasciati un altro anno dietro le spalle, con i suoi successi, ma forse soprattutto con i suoi problemi e i suoi fallimenti, per cominciarne uno nuovo, che speriamo diverso, migliore: «Anno nuovo, vita nuova!».
Eppure, in qualcuno di noi più riflessivo, potrebbe nascere il sospetto che proprio questa euforia di massa, rigorosamente programmata, mascheri una fuga dal fatto che, nella realtà, non basta lo spostamento delle lancette dell’orologio, e neppure l’allungarsi delle ore di luce del giorno, a cambiare la nostra vita. L’allegria forzata, con cui, a mezzanotte del 31 dicembre, cercheremo di illuderci che davvero qualcosa di nuovo stia accadendo, svanirà già il 1 gennaio, quando le incombenze e i piccoli fastidi del “terribile quotidiano” faranno di nuovo sentire il loro attrito logorante e soprattutto quando il pensiero delle grandi difficoltà irrisolte della nostra esistenza riaffiorerà, inevitabilmente, richiamandoci alla realtà.
Alla luce di queste considerazioni, può essere interessante l’idea di sant’Agostino, secondo cui il tempo oggettivamente non esiste. Il passato, infatti, non c’è più e il futuro non c’è ancora. Quanto al presente, è un istante che svanisce non appena cerchiamo di afferrarlo. Il tempo, egli dice, esiste solo dentro di noi. Perché solo nella nostra memoria ciò che non è più continua a sussistere come ricordo e ciò che non è ancora sussiste già nella nostra attesa. Così come solo nella misura in cui lo viviamo con lucida attenzione il presente ci appartiene veramente.
Può essere una tesi troppo estrema, ma contiene sicuramente qualcosa di vero. Essa ci avverte che non sono le scadenze del calendario a segnare la nostra storia, ma il nostro modo di percepirla. Non è la fine di un anno solare, e meno che mai la sua frenetica celebrazione collettiva, a poter dare una svolta alla nostra vita, liberandoci dal fardello del passato e aprendoci alla speranza del futuro. Solo la riconciliazione interiore con la memoria di ciò che è stato – con il dolore, forse con gli errori o addirittura con le colpe verso gli altri – può sgravarci del suo peso, non nella fuga illusoria di una notte di baldoria, ma nell’umile accettazione di noi stessi. Solo l’intima apertura al futuro, a ciò che sarà, nella consapevolezza dei nostri limiti ma anche nella fiducia per ciò che di vero e di buono possiamo costruire, può inaugurare una stagione diversa e più feconda. Solo la vigile concentrazione sul momento che stiamo vivendo fa sì che esso riveli tutta la sua ricchezza e il suo irripetibile valore.
Solo se saremo stati capaci, così, di riappropriarci della nostra vita nelle sue dimensioni di passato, presente e futuro, mettendole in relazione tra di loro, potremo raccontarci la nostra storia ed evitare che essa si risolva in una serie puntiforme di flash senza significato e senza direzione. Per questo però, direbbe Agostino, bisogna almeno qualche volta rientrare in se stessi e chiedersi che senso ha quello che stiamo facendo o forse, più profondamente, chi stiamo diventando. Magari per evitare di scoprirci, troppo tardi, con un volto che non ci assomiglia.
In questa prospettiva, il Capodanno potrebbe essere un’occasione per fermarsi, fare il punto sul nostro cammino e ripartire con un pizzico di coscienza in più. Per ristabilire, insomma, il rapporto con se stessi. Questo non impedirebbe di brindare all’anno nuovo. Ma la novità da festeggiare, allora, sarebbe dentro e non fuori di noi.
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