Intervista a Piera Buccellato coordinatrice della struttura
Una giustizia riparativa che metta al centro la persona e la relazione con gli altri nel suo percorso responsabile di crescita umana e sociale. E’ questo l’obiettivo di casa Vale La Pena la prima comunità di accoglienza in Sicilia, seconda in Italia, del centro diaconale valdese della Noce che ospita cinque detenuti in misura alternativa alla detenzione in carcere.
Prima che nascesse casa Vale La Pena il centro era già attivo per i detenuti?
Il Centro diaconale, in considerazione del delicato tema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, in questi ultimi anni a partire dal 2010, si è aperto a nuove proposte progettuali legate alla giustizia riparativa. In questo clima, infatti, ha avviato dei protocolli d’intesa con l’ufficio di Servizio sociale minorile (Ussm) e con l’ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) per intraprendere con i soggetti inseriti all’interno del circuito penale dei percorsi di riparazione simbolica del danno.
Quando è nata Casa Vale La Pena?
Nel 2014 è stata inaugurata casa “Vale La Pena” un centro di accoglienza maschile per detenuti condannati in misura alternativa. La casa, progettata con l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) di Palermo, è stata realizzata grazie alla sensibilità della Federazione delle chiese evangeliche svizzere (Heks) e grazie ad un contributo dell’8 per mille delle chiese valdesi e metodiste. La casa accoglie cinque persone che provengono dall’area penale. Nello specifico si tratta di persone in affidamento all’Uepe, la cui permanenza massima è fissata in 12/18 mesi. Il servizio di accoglienza in comunità residenziale prevede anche un posto per accoglienze brevi ed episodiche in occasione di permessi premio. L’intento è quello di prendere per mano la persona mettendola al centro delle sue scelte per capire come ripristinare il patto tradito con la collettività.
Chi può accedervi?
Si tratta di persone per le quali il GOT (gruppo osservazione e trattamento) prepara una relazione che valuta positivamente la possibilità di avviare questo tipo di percorso. In questo modo si vuole dare alla persona un’opportunità diversa creando una sorta di ponte di passaggio delicato dal dentro al fuori carcere. Dal 2014 ad oggi abbiamo avuto 20 detenuti italiani e stranieri compresi i permessanti. Stiamo registrando anche un aumento delle richieste da parte degli stranieri.
Chi entra in Casa Vale La Pena come svolge la sua giornata?
La mattina ognuno di loro si dedica a varie attività di volontariato in affiancamento degli operatori per i servizi quotidiani del centro diaconale. Nel nostro microcosmo loro si relazionano con le famiglie e con tutti gli operatori del centro sentendosi autenticamente accolti e riconosciuti come persone e allontanando per quanto è possibile il forte stigma del detenuto. Dei cinque ospiti abbiamo una persona in libertà vigilata, tre in misura alternativa e un posto per un permessante.
In alcuni casi ricucite i legami familiari?
Nella nostra esperienza abbiamo avuto persone che hanno avuto ricongiungimenti familiari che si sono risolti positivamente. Un posto lo lasciamo sempre per un permesso premio perché sappiamo che all’interno del carcere ci sono persone che non hanno un domicilio e a volte neanche la famiglia vicina. Quando è possibile favoriamo quindi l’incontro con i familiari che generalmente sono dei momenti molto belli. Ricordo che abbiamo fatto incontrare i figli e la moglie ad un ospite che faceva il compleanno ed è stato molto emozionante.
La vostra è una formula che funziona?
Le nostre esperienze sono state finora tutte positive. Nella persona che viene valorizzata per quello che sa fare e per come si dedica agli altri, cresce l’autostima e quel rapporto di fiducia necessario che gli fa vivere tutto in maniera diversa. Per chi viene da realtà multiproblematiche con uno stato di vulnerabilità sociale molto forte dettata anche da povertà culturale e materiale, lo sforzo è quello di fare riscoprire anche la loro bellezza interiore. In questo modo sentendosi rivalutate come persone, cresce in loro il coraggio e la speranza di cambiamento e di trasformazione della loro vita. Se però la persona a cui viene data la misura alternativa vive in un contesto ad alta densità mafiosa dove non ci sono strumenti culturali di cambiamento il recupero completo diventa molto più difficile ed il rischio della recidiva è molto alto. Quando la persona ha una recidiva ci dobbiamo sentire tutti responsabili, interrogandoci e mettendoci in discussione per riflettere su che cosa abbiamo fatto e dobbiamo ancora fare per migliorare il sistema in generale.
Quando escono dalla casa cercate di preparali a quello che sarà il dopo?
Casa Vale La Pena è un percorso in cui imparano anche a come andare via da noi che ha a che fare inevitabilmente con il coraggio e la possibilità di mettersi in gioco in cose a cui non erano abituati come l’impegno sociale e lavorativo, il rispetto delle regole e il riconoscimento dei diritti. Il reinserimento sociale non è mai facile. C’è chi è riuscito a stabilizzarsi tornando in famiglia e avendo delle piccole occupazioni lavorative precarie e non sempre regolari. Trovare lavoro a Palermo è difficilissimo nonostante ci si attivi a vario livello per i percorsi di fuoriuscita. Il problema è anche culturale perché la società civile è ancora poco disposta a dare delle opportunità di cambiamento a chi sbaglia a partire dal lavoro. Tutti gli ospiti vivono l’angoscia del dopo come un vuoto che gli fa paura. Si lavora allora anche per alimentare la speranza che aiuterà la persona a cercare di darsi da fare in qualche modo per la collettività.
Da dove bisogna partire per migliorare l’immagine di chi ha sbagliato agli occhi della società? Intanto, occorre abbattere in tutti i modi i muri del pregiudizio a partire anche dalla sensibilizzazione sul tema che si può fare nelle scuole, come terreno di semina prioritario, ma anche in altri contesti della società civile. Su questi terreni occorre investire ancora di più proprio per migliorare la percezione sociale nei confronti di chi ha sbagliato – che non deve essere vissuto soltanto in termini di paura e di sicurezza – e allontanando quindi chiusure e stereotipi che bloccano le porte a qualsiasi possibilità di cambiamento personale.
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