L’apporto pubblico dei credenti
Nelle moderne società laiche, secolari e pluraliste, la rilevanza sociale della fede è una delle questioni più dibattute a livello culturale e politico. Se risulta improponibile, oltre che errato, ricercare una sorta di cristianizzazione delle istituzioni, è molto utile tornare a riflettere sull’apporto pubblico-politico dei credenti. Di questi temi, e nello specifico della relazione tra fede e politica, discutiamo con Rocco D’Ambrosio.
Ordinario di Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana, D’Ambrosio è docente di Etica della Pubblica Amministrazione presso il Dipartimento per le politiche del personale dell’Amministrazione del Ministero dell’Interno. Si occupa di formazione all’impegno sociale, politico e nel mondo del lavoro a livello locale e nazionale. Giornalista pubblicista, dirige il periodico di cultura e politica “Cercasi un fine” e le scuole di politica della medesima rete.
– Il triste spettacolo della politica italiana, tanto a livello nazionale quanto sul versante locale, ci invita a prendere in considerazione l’invito, proveniente da molti settori della nostra comunità, a tornare a studiare la politica. Perché è importante studiarla?
Viviamo in un Paese che non solo ha una larga fetta di non votanti, ma ha, prima di tutto, seri problemi di tipo culturale, scolastico e universitario. Cresce l’analfabetismo di ritorno; esiste una crisi di larghi settori della scuola e dell’università, abbiamo saperi ridotti, monotematici e poco interdisciplinari, effimeri, estremamente dipendenti dalla superficialità di diverse fonti on line. Non manca solo la formazione civica, sociale e politica, manca la formazione tout court! Lo dicono le statistiche scolastiche e universitarie, la debolezza o inesistenza di percorsi formativi nei partiti politici, nelle comunità di fede religiosa, nel volontariato, nell’associazionismo, nello sport e via discorrendo. Un esempio per tutti: gli stranieri che chiedono la cittadinanza italiana sono chiamati a conoscere la Costituzione. Una domanda: ma l’italiano medio conosce la Carta Costituzionale? È stato formato seriamente alla sua visione antropologica ed etica?
– L’apporto dei cattolici alla politica è stato, dall’unità d’Italia in poi, assai diversificato ma sempre rilevante. Di recente, lei ha affermato che, anzitutto, i cattolici debbono portare nel dibattito e nelle azioni politiche la virtù della prudenza. Perché?
La prudenza è richiesta perché, non essendoci nel magistero un’indicazione partitica o di schieramento, è necessario fare un prudente discernimento per capire come orientarsi politicamente. Infatti il Vaticano II e Paolo VI hanno ben chiarito diversi nodi. «Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi», scriveva Paolo VI nel 1971, sulla scia di Gaudium et Spes 76. L’affermazione conciliare pone fine a qualsiasi collateralismo fra comunità cristiana e partiti politici – vedi il caso DC in Italia – proprio perché presenta con chiarezza l’autonomia della sfera temporale da quella religiosa, restituendo alla comunità cristiana il suo proprio ruolo di profezia e coscienza critica, il suo evangelico servizio nei confronti dei detentori del potere e dell’intera comunità civile. Con prudenza!
– La dottrina sociale della Chiesa, dalla sua fondazione ad oggi, ha percorso un cammino costellato da mutamenti sociali, politici e culturali. Con l’attenzione alla tutela dell’ambiente e allo sviluppo di un’economia umana, il cattolicesimo dei nostri tempi dona un rilevante contributo. Come valuta il magistero sociale di papa Francesco?
Detto molto sinteticamente, nel magistero di papa Francesco, dal punto di vista dottrinale, non c’è niente di nuovo. Ma cerchiamo di capirci meglio. Discorsi scritti e a braccio, le encicliche, l’esortazione apostolica, indirizzi di saluto, Angelus, omelie, messaggi non sembrano tanto trattare temi dottrinali, quanto fare riferimenti a prassi da rinnovare, per essere più fedeli alla volontà del Buon Dio. Il che non significa che le sue esortazioni non siano fondate biblicamente e teologicamente, tutt’altro; vuol dire, invece, che il riferimento dottrinale è in funzione della riforma di strutture e prassi ecclesiali perché siano più fedeli al Vangelo, cioè a “continuare il cammino del Concilio Vaticano II – come lui stesso ha precisato – a spogliarci di cose inutili e dannose, di false sicurezze mondane che appesantiscono la Chiesa e danneggiano il suo volto” (Discorso 14 ottobre 2014).
Il “niente di nuovo” riguarda, quindi, la dottrina. Lo stesso non si può dire per lo stile di Francesco e l’insistenza su alcuni temi. Riguardo allo stile conviene precisare che ogni papa – come ogni persona – è se stesso “nella sua unica e irripetibile realtà umana”, come direbbe Giovanni Paolo II (Redemptor homini).
In generale è un magistero che ha una forte carica profetica, che si manifesta spesso in temi affrontati come l’opzione preferenziale per i poveri, un nuovo slancio missionario, la povertà e la sobrietà nella vita ecclesiale, l’impegno per la giustizia e la lotta contro la corruzione di tutte le istituzioni (Chiesa cattolica inclusa), il debellare la piaga della pedofilia, la collegialità episcopale, la promozione del laicato, l’attenzione ad alcune prassi familiari, un rinnovato impegno ecumenico, la cura della natura, per citare i maggiori.
– La semplificazione politica dei nostri giorni spinge a facili strumentalizzazioni dei simboli e, dei relativi, valori della religione. È opportuno tornare a riflettere sul nesso fede e politica?
Certo che è necessario! Ma dobbiamo ricordare, come dice il Concilio e, anche, la nostra Costituzione, che Chiesa e Stato sono “autonome e indipendenti”, ma che devono collaborare per il bene dei singoli, dei gruppi e dell’intero corpo sociale. Per fare del bene autentico – va da sé – che è rischiosa e da bandire ogni strumentalizzazione, da una parte come dall’altra. È una tentazione classica, dei politici, usare la religione per finalità elettorali e politiche; non da meno alcuni leader religiosi hanno cercato di piegare la politica al proprio credo per proselitismo o difesa di interessi e privilegi delle comunità. Lo si fa a destra, come a sinistra, con tempi, stile e contenuti diversi.
A farsi notare, negli ultimi tempi, è la destra italiana, in compagnia di quella statunitense, polacca, ungherese, francese, tedesca. Non tanto sono interessati a comprendere il Vangelo, a fare esperienza di vita cristiana, personale o comunitaria. Per loro i simboli (come rosari, crocifissi, presepi) non esprimono una fede matura, ma sono solo strumento di consenso elettorale; la stessa fede non è verificata nella comunità ma nello spazio individuale. Più che cristiani, sul piano politico e sociale, sono degli eretici gnostici, in versione moderna, cioè fortemente mediatica e populista.
Inoltre ritengo che un’altra emergenza per i cattolici italiani sia non riflettere tanto sul tema dell’appartenenza, quanto su quello della coerenza. Abbiamo detto: un’unica fede può portare ad impegni politici diversi. Accettare questo dato significa concentrarsi più su problemi di coerenza che di appartenenza. Con prudenza e spirito profetico! Purtroppo si deve registrare che, anche perché la profezia scarseggia, i cattolici non solo non sono stati vigili nel smascherare le nuove forme di malpolitica, ma, alcune volte, ne sono stati anche complici.
– Fra le piaghe della politica e della società in Italia vi è sicuramente l’illegalità diffusa. L’ispirazione cristiana, quale apporto può offrire per arginare tale fenomeno?
“La corruzione oggi nel mondo – ha detto Francesco – è all’ordine del giorno e l’atteggiamento corrotto trova subito facilmente nido nelle istituzioni. Perché un’istituzione che ha tanti settori qua e là, ha tanti capi e vicecapi, è tanto facile che lì si possa annidare la corruzione. Ogni istituzione può cadere in questo”. (Conferenza stampa 19 gennaio 2015). È uno dei tantissimi interventi su illegalità, corruzione e criminalità organizzata presenti in diversi strati nazionali e istituzionali. Il fatto che il papa abbia avuto il coraggio di denunciare queste piaghe, però, non significa affatto che tutti i pastori e i laici cattolici siano pronti a fare altrettanto.
Il pontificato di Francesco è ancora accompagnato da fenomeni di corruzione a livello di curia vaticana, come d’istituzioni cattoliche sparse nel mondo. Per non cadere nella corruzione e per lottare contro di essa, abbiamo bisogno di un cuore retto e ricolmo di amor di Dio. Francesco ne è ben cosciente, non a caso afferma, parlando di mondanità spirituale di pastori e fedeli laici, che: “Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è autenticamente aperto al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, d’impegno verso i poveri” (Evangelii gaudium, 97).
“Mettere la Chiesa in movimento di uscita da sé” è il rimedio che il papa propone per guarire dalla corruzione. Quindi è la comunità – quella cristiana in questo caso – che se ne deve far carico. Certamente il singolo corrotto va punito legalmente, corretto e curato moralmente; ma per sradicare il problema la comunità deve intervenire, cambiando modello di riferimento e linee di azione. Ovviamente il rimedio di tipo spirituale e pastorale non esclude quello legale e giudiziario.
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