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Celebrazione della vita e della morte

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di Giuseppe Savagnone

 

Anche se nella percezione comune è il Natale, col suo lieto clima saturo di calore familiare, la festa più sentita, la Pasqua costituisce, nella tradizione cristiana,  il momento più solenne dell’anno liturgico. Tanto che i giorni che la precedono vengono denominati «settimana santa».

Un motivo di questo è sicuramente che tutto il messaggio cristiano è incentrato sulla passione, la morte e la resurrezione di Cristo. Sono esse a costituire, quantitativamente, la parte più consistente dei vangeli. E sono esse il nucleo più antico e decisivo del messaggio cristiano. Il testo primordiale, da cui tutto il resto si è sviluppato, è una breve formula che Paolo riporta nella sua prima lettera ai Corinti (assai prima della stesura dei vangeli), al cap.13, e che gli studiosi oggi sono unanimi nel far risalire ai primissimi anni dopo la morte di Gesù: «Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che ap­parve a Cefa e quindi ai Dodici».

Fu sulla base di questa fede nella resurrezione che si sentì l’esigenza di ricostruire e mettere per iscritto, nei testi evangelici, la vita pubblica di Gesù e, più indietro ancora, quel poco che si poteva sapere della sua infanzia. Come osservava il cardinale Martini, «nella predicazione cristiana primitiva l’annuncio della risurrezione aveva un posto assolutamente centrale (…). Non è mai esistito un cristianesimo primitivo che abbia affermato come primo messaggio “amiamoci gli uni gli altri”, “siamo fratelli”, “Dio è padre di tutti”, ecc. Dal messaggio “Gesù è veramente risorto” derivano tutti gli altri». Il cristianesimo ridotto ai “valori” è un’invenzione moderna. I valori, certo, vi sono contenuti. Ma il cuore di tutto è un fatto, non una bella teoria.

Vi è però anche un altro motivo, forse, per cui  questa settimana dell’anno è «santa». Ed è che in essa si celebra il sacro mistero non solo della morte e della vita di Cristo, ma della nostra. E qui è in gioco qualcosa che riguarda tutti, credenti e non credenti. Perché si può non credere nella resurrezione, ma è impossibile negare che noi moriamo.

E non solo alla fine della nostra esistenza biologica. L’essere umano è l’unico animale che sperimenta la morte già nel corso di tutta la sua vita. La sperimenta nella consapevolezza che la sua esistenza inesorabilmente cadrà, prima o poi, nel nulla e che tutte le sue speranze, i suoi progetti, i suoi successi, un giorno seguiranno lo stesso destino. Ma la sperimenta anche nel fisiologico venir meno, durante la propria vita,  di persone, di situazioni, di rapporti che egli considera parte di sé. Muoiono gli amori, le amicizie, le cose belle che insieme ad altri si sono costruite. Muore l’istante che vorremmo durasse in eterno. Muore perfino il dolore, inghiottito e neutralizzato dalla routine quotidiana. Per noi uomini e donne la morte non è un episodio finale, ma l’orizzonte entro cui si svolge la nostra vita e con cui dobbiamo condurre un lungo duello che si concluderà inevitabilmente con la sconfitta.

È la parabola narrata dal grande regista Ingmar Bergman in un suo famoso film, Il settimo sigillo (1956), dove il viaggio del protagonista, un cavaliere reduce dalle crociate, è scandito dalle mosse di una partita a scacchi che egli gioca con la Morte.

È qui che si inserisce l’annuncio pasquale. Anche «Cristo morì» e «fu sepolto». Nessuna esenzione, nessun privilegio. Anzi, tra tutte le agonie, una delle più tremende. Ma il cristiano crede che egli «è risuscitato il terzo giorno», perché in lui Dio stesso ha condiviso fino alle estreme conseguenze la nostra condizione mortale e l’ha così riscattata dal dominio della morte. Il tempo, che si caratterizza per la sua fugacità, è diventato, paradossalmente, il sacramento dell’eternità. Ormai tutto ciò che muore resta per sempre, nel cuore di Dio, come l’umanità di Gesù, seduto alla sua destra. Così sarà della nostra stessa persona, destinata, secondo la fede cristiana, a mantenere la sua identità non solo spirituale, ma anche corporea e psichica.

È una visione diversa da quella, per esempio, di un grande filosofo come Platone, che teorizzava l’immortalità dell’anima concependola come una fase successiva e del tutto eterogenea rispetto alla miserabile vita terrena. Nella visione cristiana la vita eterna non è un “al di là” contrapposto al presente “al di qua”, ma comincia già in questo mondo, perché, con la resurrezione di Cristo, non solo la sua umanità, ma  anche la nostra – con le sue fragilità, con le sue peripezie, con  la sua fisicità  – è stata assunta, già da ora nella forma del sacramento (che nasconde mentre rivela), un giorno nella forma della piena manifestazione.

Ne consegue una spiritualità che non concepisce la tensione verso Dio come una fuga dal mondo, ma come una più profonda fedeltà alla terra. Come scrive don Barsotti in un suo diario: «Il tuo amore deve abbracciar tutto, tutto l’universo: tutta la creazione deve esultare in te nella pienezza della Vita divina. L’estasi non strappa alla terra, ma eleva con te la terra, nella luce di Dio – la trasfigura in Dio (…) Il cristiano non può rinunziare a nulla, tutto è suo – e tutto egli deve portare con sé, elevare con sé fino a Dio nell’amore».

E, reciprocamente, sottolinea lo stesso autore, «quello che Dio ti ha dato nel tempo sarà l’alimento della tua eternità. Certo, Dio, ma Dio in ogni avvenimento della tua vita, in ogni incontro con gli uomini». Non il vuoto e la noia di una immortalità che si separa per sempre dalla vita reale vissuta nel tessuto delle relazioni e delle esperienze umane, bensì il recupero di tutto ciò che si era via via perduto su questa terra e che, nella resurrezione, ci verrà di nuovo consegnato in pienezza. Chi, unito al Risorto,  ha trovato Dio nelle cose della vita, troverà le cose della vita  in Dio.

 

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