C’era una volta il diritto internazionale

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Il senso del diritto nella vita internazionale

Foto di Xabi Oregi da Pexels

Esiste ancora il diritto internazionale? L’interrogativo può risultare astrattamente teorico, ed è invece attualissimo. Le tumultuose vicende che hanno scosso l’ordine relativo del mondo occidentale, creato dopo la seconda guerra mondiale, hanno spinto gli osservatori a polarizzare la loro attenzione sui fatti e sulle loro implicazioni immediate.

In particolare le due guerre divampate in Ucraina, dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022, e in Palestina, con la reazione israeliana all’attacco di Hamas, il 7 ottobre 2023; poi l’insediamento alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump e la clamorosa svolta da lui impressa alla politica americana, hanno offerto lo spunto a innumerevoli commenti, anche di segno opposto, che hanno evidenziato la gravità di ciò che accadeva e sulle conseguenze che ne derivavano.

Vorremmo provare ad alzare lo sguardo su un orizzonte più ampio e a interrogarci sul significato che questi avvenimenti hanno, per quanto riguarda il modo di concepire le relazioni tra gli Stati e il ruolo del diritto internazionale.

Con questa espressione si indica, solitamente, l’insieme delle regole, giuridicamente vincolanti il comportamento dei soggetti operanti sulla scena  politica internazionale. Dove il punto essenziale è che gli esseri umani non possono accontentarsi di ispirare le loro relazioni pubbliche al principio della pura forza e accettano di sottomettere le loro scelte a precisi limiti di ordine etico-giuridico. Uno Stato, perciò, deve saper distinguere tra ciò che può fare e ciò che ha il diritto di fare.

Per tradurre in realtà questa visione, sono stati istituiti, nel 1945 la Corte Internazionale di Giustizia, che è un organo dell’ONU preposto a giudicare le controversie tra gli Stati, e, nel 1998, la Corte penale Internazionale, che invece è nata da un trattato tra un certo numero di paesi, e che ha il compito di giudicare gli eventuali crimini di guerra dei governanti.

L’esistenza stessa del diritto internazionale implica che la sfera delle azioni umane, anche a livello pubblico, non è regolata dal gioco degli istinti, su cui si reggono le relazioni tra gli animali non umani, ma dalla ragione, la sola in grado di stabilire la differenza tra il vero e il falso, tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto.

Non per una masochistica mortificazione del libero gioco delle pulsioni vitali, ma nel riconoscimento che queste pulsioni, lasciate a se stesse, portano l’essere umano a tradire la sua identità e finiscono per trasformarsi, da espressione di vita,  in energie distruttive di morte. Per tutti, e dunque non solo per chi ne è vittima, anche per chi si illude di affermarsi abbandonandosi ad esse.

Più alla radice, il diritto internazionale applica anche agli Stati l’idea che il senso del limite è fondamentale per gli esseri umani. Che siano o no religiosi, è fondamentale per loro essere consapevoli di non essere Dio, perché quello che in Lui – per chi ne ammette l’esistenza – è espressione della sua reale assolutezza, negli individui del specie homo sapiens sarebbe una ridicola pretesa, in contrasto con la loro effettiva identità, sempre relativa a miriadi di condizionamenti, e, se viene presa sul serio, si trasforma in un tragico delirio di onnipotenza.

Princìpi e realtà effettiva

Bisogna riconoscere che questa autolimitazione non è mai stata accettata, di fatto, da tutti. In alcuni casi neppure di diritto. È significativo che al trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale non abbiano aderito alcuni Stati, tra cui Russia, Cina, Stati Uniti e Israele.

Ciò malgrado, restavano dei punti di riferimento comuni, primo fra tutti quello all’ONU (Organizzazione della Nazioni Unite), l’organismo   fondato nel 1945, a cui oggi aderiscono ben 193 Stati (compresi quelli che non riconoscono la Corte Penale Internazionale), le cui finalità sono mantenere la pace e la sicurezza internazionale; sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, sulla base del rispetto dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli; promuovere la cooperazione internazionale in materia economica, sociale e culturale; il rispetto dei umani e delle libertà fondamentali.

Purtroppo l’ONU ha evidenziato sempre di più i suoi limiti, dovuti in gran pare al regolamento del Consiglio di sicurezza (formato da cinque membri permanenti e da altri dieci a rotazione), in cui si prevede che le risoluzioni possono essere prese solo all’unanimità, per cui basta il veto di uno dei cinque Stati permanenti per bloccarle.

Tuttavia, dalla seconda metà del Novecento le violazioni dei diritti di Stati e di popoli a livello internazionale sono sempre state denunciate e condannate come tali. È il caso dell’aggressione della Russia all’Ucraina, e delle crudeltà commesse dall’esercito russo, duramente condannate e sanzionate a livello internazionale, in particolare da tutti i governi occidentali, ma anche da molti altri. Una condanna formulata non solo in nome della politica, ma del diritto, come dice il mandato d’arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del presidente russo Putin per «crimini contro l’umanità».

Così come in nome del diritto, oltre che della politica, è stato universalmente condannato l’attacco del movimento islamico Hamas nei confronti di Israele, con la terribile strage di civili che in esso è stata consumata.

Il diritto calpestato

A far vacillare questo primato di un criterio etico-giuridico sulle scelte degli Stati  sono stati gli sviluppi successivi al 7 ottobre.

In nome del diritto dell’aggredito di difendersi dall’aggressore – effettivamente sancito dal diritto internazionale -, lo Stato ebraico ha intrapreso una campagna militare che ha avuto come obiettivo non soltanto i membri di Hamas,  responsabili dall’attacco, ma l’intera popolazione palestinese residente a Gaza, uccidendo indiscriminatamente uomini, donne e bambini, bombardando abitazioni civili, ospedali, moschee, uffici, strade, bloccando la fornitura di viveri, di energia elettrica e di medicinali, sradicando da un giorno all’altro la gente dai luoghi di residenza e di lavoro, per indirizzarla verso “luoghi sicuri” che poi sono stati ugualmente bombardati.

I video e le fotografie che è stato possibile avere dei luoghi del conflitto, con l’inizio della recente tregua, mostrano, senza bisogno di commenti, gli effetti devastanti di queste operazioni militari.

Il premier israeliano Netanyahu – con l’appoggio dei rappresentanti delle comunità ebraiche della diaspora, soprattutto italiane – ha sempre sostenuto che esse si svolgevano nel pieno rispetto del diritto internazionale, perché le vittime – 49.000 persone, di cui la maggior parte donne e bambini – erano usate come scudi umani dai terroristi e costituivano dunque un “danno collaterale” in una giusta guerra contro questi ultimi.

Solo che lanciare in quindici mesi 85.000 tonnellate di bombe su un territorio grande come metà di Madrid e popolato da più di due milioni di persone, chiudere i valichi che consentono alla popolazione l’approvvigionamento dei beni di prima necessità, fare saltare con l’esplosivo le case di civile abitazione e le infrastrutture, non si può considerare un incidente involontario, come è nel caso dei “danni collaterali”, ma un’azione deliberata di distruzione volta a trasformare un territorio in un «inferno», come lo ha definito il presidente Trump.

In base a questo la Corte Penale Internazionale, dopo un’accurata indagine, ha emesso un mandato di cattura che riguarda, sia i leader di Hamas, sia Netanyahu e il suo ministro della guerra, ancora una volta per «crimini contro l’umanità».

Ma, di fronte a questa chiarissima violazione del diritto internazionale, la maggior parte degli Stati occidentali, che avevano duramente condannato le violenza della Russia nei confronti del popolo ucraino, ha reagito con timidi (e inascoltati) inviti alla moderazione, come ha fatto il presidente Biden (che intanto forniva ad Israele le bombe ad altro potenziale); con un silenzio complice, come il governo italiano, che per due volte, a distanza di pochi mesi, ha accolto in visita ufficiale il presidente di Israele, Herzog, attestandogli l’amicizia incondizionata nei confronti del suo paese, senza mai fare cenno al massacro di cui si stava rendendo responsabile; o addirittura, come ha fatto il nuovo presidente USA, progettando una deportazione dei due milioni di abitanti di Gaza e la creazione, sulle macerie di un resort di lusso.

Perfino la sentenza della Corte Penale internazionale è stata disconosciuta da Stati come il Regno Unito, la Francia, la Germania e l’Italia, che pure hanno firmato il trattato per cui si sottomettevano alla sua giurisdizione. E ora non dicono nulla neppure davanti all’ultima mossa di Netanyahu, il quale, per costringere Hamas a rilasciare gli ostaggi, lo ha esplicitamente ricattato, con uno stile tipicamente terroristico, affamando la popolazione civile di Gaza fino al cedimento dell’avversario.

Tutto ciò, paradossalmente, mentre invece gli stessi Stati europei si appellano al diritto per continuare a sostenere l’Ucraina contro Putin, che fin dall’inizio lo aveva violato. Opponendosi a Trump che, a differenza del suo predecessore, è arrivato a sostenere, contro ogni evidenza della ragione, che la responsabilità della guerra è dell’Ucraina e che a scatenarla è stato il suo presidente Zelensky.

Per non parlare delle minacce di aggressione militare rivolte dallo stesso Trump nei confronti della Danimarca, per strapparle la Groenlandia, e di Panama, per togliere a questo Stato il canale. Il colonialismo e il neocolonialismo non sono certo una novità. Lo è, però, la proclamazione ufficiale di un progetto fondato esclusivamente sugli interessi del più forte, in nome della propria superiorità  militare ed economica. La forza sostituisce la ragione e il diritto e non solo non fa nulla per nasconderlo, ma lo assume come criterio.

Nella stessa logica rientrano le guerre commerciali annunciate e in parte effettivamente attuate dal presidente americano contro Stati da sempre amici degli Stati Uniti, come il Canada o i paesi europei.

Senza che vi sia qui una violazione del diritto internazionale, sono evidenti anche in questo caso e implicazioni violente dello slogan «Make America Great», assurdamente condiviso da esponenti politici di governi che sono vittima di questa logica perversa, come nel caso dell’Italia.

Esiste ancora il diritto internazionale? Ma forse la domanda dev’essere più radicale: esiste ancora il riferimento a quella razionalità che ha trasformato l’originaria “legge della giungla”, dove il solo diritto è quello della forza, in una comunità umana?

Qualche settimana fa una deputata di FdI, in un dibattito televisivo, invece di parlare per argomentare le sue ragioni, si è messa ad abbaiare e mugolare (per circa un minuto). È un inquietante episodio che può assurgere a valore di simbolo della svolta in corso. Vogliamo veramente che questo sia il nostro futuro?

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