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Che fine ha fatto il paradiso?

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di Giuseppe Savagnone

 

   Nessuno parla più del paradiso. Quando io ero bambino, poi ragazzo, chi era credente sperava di andarci. Ciò si prestava a una deformazione terribile: quella di credere che ci si debba comportare bene in vista di un premio assegnato da un Giudice celeste. Una delle prime scoperte che mi avvicinarono al cristianesimo fu che la vita eterna non ci aspetta dopo la morte, ma comincia già su questa terra e dipende da noi. Così, già fin da adesso possiamo rendere la nostra esistenza un paradiso o un inferno. Oppure – e questo forse è più frequente – un purgatorio.

   Lo aveva intuito Jean-Paul Sartre quando, nel suo noto dramma teatrale A porte chiuse, rappresenta la vicenda di un impenitente libertino, Garcin, che, come da previsione, finisce all’inferno. Quale, però, la sua sorpresa quando, invece di trovarsi tra pentoloni di pece bollente e diavoli col forcone, viene introdotto in un borghesissimo salottino e, davanti alle sue perplessità, si sente cortesemente rispondere che quello, proprio quello, è l’inferno! Dopo un po’ vengono introdotte nel salotto anche due donne, Inès e Estelle, ognuna delle quali ha dietro di sé una storia di colpe imperdonabili, ma a cui come unica pena viene assegnata quella di restare chiuse anch’esse nel tranquillo locale dove si trovava già Garcin. Fra i tre personaggi si stabilisce ben presto una rete di rapporti sempre più stretti e più complicati. Finché a  un certo punto cominciano a capire che la loro pena consiste nel torturarsi a vicenda e Garcin esclama – la battuta è famosa – : «Ora capisco! L’inferno sono gli altri!». Verso la fine del dramma scoprono che in realtà la porta è sempre rimasta aperta, ma non sono egualmente in grado di lasciare la stanza, imprigionati dai legami che si sono creati tra loro.

   Io, che sono cristiano, sono incline a pensare gli altri più come un purgatorio – nel senso letterale di “luogo di purificazione” – che non come un inferno. Ma ho citato questo racconto per confermare l’idea che c’è già in questo mondo l’inizio e l’anticipazione dell’al di là. Per questo il credente deve impegnarsi su questa terra e nel cuore della storia, dove la sua fede deve trovare un concreto riscontro nelle sue opere.

   Detto ciò, non posso non rilevare che questa prospettiva sembra essersi così radicalmente affermata, anche per reazione al passato “oltremondanismo”, da cancellare l’attesa di ciò che ci attende dopo la nostra morte. Crediamo ancora che il nostro destino debba compiersi oltre questa soglia? Crediamo ancora nella nostra personale resurrezione? Oppure il nostro impegno  nel presente nasconde il desiderio di distrarci da un futuro  che, in un modo o nell’altro, si annuncia troppo “diverso” per sentirlo ancora nostro?

   Qualcuno a questo punto avrà già fatto degli scongiuri. Parlare di queste cose alla vigilia di Natale! Eppure proprio il tempo che stiamo vivendo, l’Avvento, in quanto indica l’attesa di qualcosa che deve accadere, di Qualcuno che deve venire, non si riferisce alla prima venuta di Gesù, più di duemila anni fa, che si può solo ricordare, ma al suo ritorno, che si realizzerà alla fine dei tempi per l’umanità nel suo complesso, e alla fine della nostra storia terrena per ciascuno di noi. E non come un lutto, ma come un appuntamento gioioso, una festa. Perché così è rappresentato nei vangeli l’arrivo dello Sposo, al termine di una lunga attesa. L’Avvento ci ricorda che è lui, il Signore, che noi in fondo aspettiamo, per essere pienamente felici nel suo abbraccio, e a cui giorno dopo giorno dobbiamo andare incontro pieni di quella «beata  speranza» di cui parla la liturgia.

   La censura sul paradiso, divenuto argomento tabù nelle nostre chiese (forse per evitare i suddetti scongiuri da parte dei fedeli), ci priva di questa speranza. E quando ancora recitiamo in fretta, per qualcuno che ci ha preceduto, il  «requiem aeternam», concluso dal «requiescant in pace», “riposino in pace”, ci rallegriamo in realtà di essere ancora vivi, desti, rispetto a chi dorme il sono della morte. Solo che il «riposo» di parla più volte nella Bibbia non è affatto un sonno, una perdita di coscienza, che giustificherebbe il nostro timore di doverlo sperimentare, ma un grado più alto e più intenso di vita.

   Gli ebrei lo  pensavano come la partecipazione a quel «riposo di Dio», il settimo giorno, che esprime la sua infinita pienezza, e lo rappresentavano nel “sabato”. Noi stentiamo a capire come un vuoto di attività possa essere una pienezza. Siamo troppo coinvolti in una frenetica corsa per apprezzare l’idea di doverci fermare. «Di che cosa mancava il mondo?», si chiede un antico interprete ebreo. «Del riposo! Venne il Sabato, venne il riposo, e così l’opera della creazione fu interamente compiuta». Così il riposo sabbatico  non è un nulla, ma la sintesi di tutto quello che si è stati e si è fatto nei sei giorni precedenti.

   Allo stesso modo per il cristiano. Solo che per lui il riposo è dato, già su questa terra e ancor più pienamente nell’eternità, dall’unione a Gesù. «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-30). «Anche Gesù insegna che il sabato porta il dono del riposo, ma è il riposo che Dio dà attraverso il Figlio» (J. Neusner).

   E poiché il Figlio  si è fatto carne ed è risorto con la sua carne umana, sintesi della sua storia terrena, anche noi non ci troveremo smarriti nel vuoto di una nuvoletta, come molti immaginano il paradiso, ma porteremo con noi nell’eternità la nostra umanità e la nostra storia, finalmente capaci di viverle senza affanno, nel riposo di Dio.  

 

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