di Giuseppe Savagnone
I recenti episodi, che hanno visto esponenti dei partiti presenti in parlamento insultare pesantemente il presidente della Repubblica e avallare una campagna mediatica pesantemente offensiva nei confronti del presidente della Camera, sono purtroppo tutt’altro che il frutto di occasionali intemperanze. Essi nascono in un contesto dove, da molto tempo, le regole della convivenza civile e politica sono state sistematicamente oscurate.
Così diventa possibile che un parlamentare dia del «boia» al capo dello Stato, simbolo dell’unità e della dignità nazionale, e che il leader di un grande partito metta sul suo blog un post in cui la terza carica istituzionale viene additata come eventuale oggetto di consumo sessuale. E questo senza che vi sia una sollevazione dell’opinione pubblica, chiaramente rilevata dai sondaggi, contro i responsabili di simili squallide gesta. Ormai in Italia si può dire e fare tutto, col sorridente beneplacito di masse imponenti di ciechi sostenitori, che sembrano aver preso in ostaggio la nostra democrazia, degradandola a una perenne corrida.
Ciò non è senza costi per tutti, anche per chi ne è la causa. Il declino internazionale del nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. E non dipende soltanto dal Pil. La stessa crisi finanziaria ed economica risente di questo degrado culturale, etico e politico. Se fossi uno straniero che ha soldi da investire, non verrei mai a farlo in un Paese dove le regole sono infinite – siamo forse, nel mondo occidentale, quello con il maggior numero di leggi e di controlli burocratici – , ma servono solo perché i furbi e i mascalzoni le violino impunemente, col pieno appoggio della gente.
Credere che il problema di fondo si risolva inventando nuove procedure – la riforma elettorale – , significa soltanto illudersi. Quali che siano i meccanismi formali, se a gestirli saranno gli uomini e le donne che attualmente formano la nostra classe politica, non c’è da aspettarsi nulla di buono per il prossimo futuro. Ma il dramma è più a monte e riguarda non gli eletti, bensì gli elettori. In una democrazia i rappresentanti sono scelti dal popolo. E, se è vero che il vecchio sistema elettorale non consentiva preferenze individuali, i partiti, almeno, sono stati votati dalla gente. E sono così.
È la gente, dunque, che bisogna tentare di educare, se si vuole uscire da questa deriva suicida. Un punto importante (ma ce ne sarebbero anche tanti altri!) mi sembra quello che riguarda il senso dell’autorità. Ciò che hanno di comune gli insulti a Napolitano e alla Boldrini non è, ovviamente, il sessismo, (realissimo, ma valido solo per la seconda), bensì lo smarrimento del rispetto per chi ha dei compiti istituzionali e deve poterli esercitare in un clima che non sia quello del pubblico linciaggio.
Oggi, per reazione a forme passate di autoritarismo, nessuno vuol più sentir parlare di autorità, neppure coloro che avrebbero il dovere di esercitarla. Essere “democratici” significa, per molti, abdicare a questo ruolo impegnativo. Esemplare il caso dei tanti genitori che preferiscono essere “amici” dei propri figli (qualcuno si fa anche chiamare da loro per nome), dimenticando che essi di amici ne possono avere tanti, di padre e di madre soltanto quelli.
Il motivo di questa fuga dall’autorità è che essa viene sistematicamente confusa col potere. E quest’ultimo risulta sempre sospetto. Tra le due cose, in realtà, c’è una grande differenza. Mentre il potere è la capacità di coercizione fisica, psichica, economica o sociale, con cui qualcuno esercita di fatto un dominio su qualcun altro, l’autorità è la qualità per cui una persona è degna, in linea di principio, di essere obbedita. L’origine del termine “autorità” aiuta a comprenderne il motivo: il verbo augere in latino significa “far crescere”, “far nascere”. Da esso deriva anche il sostantivo auctor. Chi ha l’autorità la trae dal suo compito di far nascere e crescere una persona o una comunità e dalla responsabilità che ne deriva.
E anche quando l’autorità si serve del potere, esso deve essere finalizzato a questa “nascita” e sottostare perciò a precise regole (il poliziotto, a differenza del bandito, non può usare le armi a proprio arbitrio), che rendono l’esercizio di questo potere “forza” e non “violenza”. Non è una differenza solo verbale, ma sostanziale. Un abisso separa la coercizione esercitata dal rapitore sul bambino e quella della madre che, in nome della propria autorità, lo costringe a mangiare suo malgrado.
Oggi è diventato di moda contrapporre al concetto di “autorità” quello di “autorevolezza”. È un equivoco. L’autorevolezza è frutto di un carisma personale, che peraltro può funzionare nei confronti di alcuni soggetti e non di altri. L’autorità è invece un compito assegnato dalla comunità e di cui bisogna riconoscere e rispettare la funzione quali che siano le doti di chi la esercita e le preferenze di chi ne è il destinatario. Certo, l’ideale si ha quando le due cose coincidono nella stessa persona. Ma non sempre è così. Si può non stimare colui o colei che ricopre una carica pubblica, ma non li si può insultare, deridere, umiliare. E le proteste nei loro confronti devono sottostare, come l’autorità stessa, alla logica delle regole, non delle reazioni impulsive e scomposte.
Tutto ciò non è richiesto da un vago moralismo, bensì dall’interesse di tutti. Perché, senza autorità, una comunità cade nel caos. Dove la forza arretra, dilaga la violenza. Quella delle parole non è da sottovalutare, perché prepara quella dei gesti. In questi anni la volgarità e l’aggressività del linguaggio sono diventate una pratica comune – tra le gente, prima ancora che nella classe politica. Non c’è da stupirsi che si sia scambiata per “democrazia” la mancanza di rispetto per chi deve far nascere e crescere, giorno per giorno, la convivenza civile. Il rinnovamento deve partire dal basso, dallo stile delle persone comuni. Che, a loro volta, saranno in grado di esprimere una nuova classe politica. Altrimenti, rassegnamoci a vivere in un Paese alla deriva.
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