Il lato oscuro di un fenomeno
La denuncia per “istigazione al suicidio” dell’influencer di Siracusa che, su TikTok, ha lanciato una serie di “sfide estreme” – l’ultima, coprendosi il viso con un nastro adesivo trasparente, col rischio di soffocamento –, arriva dopo la tragica morte di due bambini, una di dieci anni, uno di nove, vittime di analoghi “giochi”, e porta alla luce ciò che di ambiguo è presente nel fenomeno di questi “persuasori” che, con il potente mezzo della rete, condizionano sempre più il nostro modo di pensare, di sentire e di vivere. Riscuotendo un seguito impressionante: la potenziale “istigatrice al suicidio” aveva 731.000 followers! E, soprattutto, un’adesione cieca. Un messaggio rinvenuto sul suo profilo diceva: «Ciao, se mi saluti giuro mi lancio dalla finestra».
Luci ed ombre
Per fortuna non tutti gli influencer sono così. Molti in realtà esercitano la propria influenza in forme assolutamente lecite, dando consigli riguardanti l’abbigliamento, proponendo ricette di cucina, offrendo una conversazione piacevole e spiritosa… Occasionalmente, promuovono anche iniziative filantropiche: Chiara Ferragni, per esempio, ha usato il suo fascino mediatico per raccogliere soldi in favore di ospedali e per l’emergenza Covid.
Ce ne sono anche alcuni che lanciano messaggi più profondi e costruttivi, ricchi di spunti culturali e esistenziali, trovando anche a questo livello una risposta significativa (pur se, in termini numerici, meno vasta).
Un successo senza eguali
Al di là degli esiti, siamo comunque davanti a una figura nuova, che merita la nostra attenzione per il ruolo che ormai ha assunto nella nostra società. Come scrive Monica Monnis sulla rivista «Elle» del 21 dicembre 2020, «sono famosi, hanno milioni di seguaci che pendono dalle loro labbra, ogni loro singola parola vale oro (…), con un semplice post sono in grado di indirizzare l’opinione pubblica, fare scalpore e/o polemica, conquistare titoli di giornali ed eclissare notizie almeno sulla carta più importanti (una pandemia, così per dirne una)».
Forse il ritratto qui tracciato pecca di eccessiva enfasi. Ma qualcosa di vero esso sicuramente contiene. Lo dicono le proporzioni del seguito che questi influencer ottengono. La già citata Chiara Ferragni, ha 22 milioni e duecentomila followers e 55 milioni e mezzo di interazioni, cioè di like, commenti e condivisioni su Facebook, Instagram, Twitter e YouTube! Ed è solo la prima di una lista di uomini e donne che, sia pure in misura minore, riscuotono un’attenzione che nessun rappresentante del mondo della cultura “ufficiale” – docenti, giornalisti, scienziati – può sognarsi.
Un’adesione senza riserve critiche
A preoccupare, però, è lo stile del rapporto che lega la maggior parte degli influencer ai loro followers. C’è qualcosa che accomuna il frequentatore di TikTok che si diceva disposto a lanciarsi dalla finestra, per un saluto da parte dell’influencer siracusana, e i milioni di persone – molti sono giovani – che «pendono dalle labbra» dei suoi più noti e per fortuna assai più innocui colleghi. Siamo davanti a una ammirazione e a un’adesione che spesso tendono a non passare attraverso una reale verifica critica, anche perché rafforzate dalla logica delle mode della società neocapitalista di massa, che già di suo favorisce i meccanismi di passiva imitazione e di omologazione.
Il pericolo del vuoto
È vero, qui, non c’è il rischio della violenza che in altri casi una simile adesione può suscitare, come nel caso dei fondamentalismi religiosi plasmi la mente i cuori con verità unilaterali e aggressive. Perché questi “nuovi maestri”, alla cui scuola crescono i nostri ragazzi, non vogliono trasmettere nessuna verità, anzi, nella maggior parte dei casi, le relativizzano tutte in nome dei gusti e delle preferenze.
E tuttavia, bisogna chiedersi se non siano pericolosi in qualche misura anche loro, nella misura in cui risultano funzionali al mantenimento di un vuoto intellettuale e spirituale che essi non creano, ma almeno alimentano, soprattutto nei più giovani, e i cui effetti sono riscontrabili in tutte le manifestazioni della nostra vita privata e pubblica.
In questo vuoto si possono verificare episodi estremi e devastanti – come quelli dei suicidi infantili che hanno impressionato l’opinione pubblica –, oppure, più semplicemente, la quotidiana celebrazione dei riti consumistici, sullo sfondo di una rinunzia a prendere sul serio i “grandi problemi” che dovrebbero determinare il senso della vita.
Le dimissioni dei “maestri”
Quel che è certo è che il crescente influsso degli influencer corrisponde – al tempo stesso come effetto e come causa – al tramonto dei “maestri”, di quelli veri, che insegnavano a porseli, questi problemi, e ad affrontarli con spirito critico, senza «pendere dalle labbra» di nessuno, proponendo non consigli sull’abbigliamento o sulle ricette di cucina, ma le domande di fondo decisive per le scelte pubbliche e private.
E non si parla qui solo dei grandi intellettuali che un tempo orientavano la cultura della nostra società. Il processo che ha portato gli adulti a dare le dimissioni dal loro compito, di educatori ha colpito, prima di tutto, genitori e insegnanti. Sia nelle famiglie – sempre meno in grado di trasmettere ai loro figli un patrimonio convincente di valori –, sia nella scuola, sempre più concentrata (quando va bene) sulla mera “trasmissione dei saperi” – la capacità dei “maestri” di proporre ai giovani messaggi significativi è oggi immensamente inferiore a quella di qualunque influencer.
Il dialogo assente…
Proprio la pandemia ci sta mettendo di fronte alle conseguenze di questa crisi educativa, esasperando le tensioni di rapporti in cui il grande assente era, già da tempo, il dialogo, condizione imprescindibile per educare. Impossibile in un rapporto frettoloso di convivenza, come quello che spesso caratterizzava la vita familiare prima del Covid; superfluo a scuola per un mera trasmissione di conoscenze, il dialogo, in questa emergenza, si è rivelato indispensabile proprio nell’esasperazione della sua assenza.
Senza dialogo, il rapporto genitori-figli si liofilizza in un repertorio di frasi fatte e i ragazzi, sequestrati in casa e lasciati soli, cercano sullo smartphone o nel computer i possibili interlocutori, col rischio di trovarvi quelli sbagliati. Così come, senza dialogo, diventa problematico un rapporto scolastico puramente virtuale, che dovrebbe avere la sua linfa in una comunicazione umana e che invece continua a fondarsi su lezioni frontali ispirate al vecchio schema unidirezionale.
…E l’occasione per riscoprirlo, prima di tutto nell’ascolto
Eppure, proprio questo emergere con maggior evidenza di un disagio covato già da tempo, può costringere genitori e insegnanti a ripensare il loro ruolo educativo e a rendersi conto, una buona volta, che proprio loro – non gli influencer! – devono essere i “maestri” dei loro figli e dei loro alunni, instaurando con essi una comunicazione degna di questo nome.
Compito impegnativo, perché il dialogo richiede l’ascolto e l’ascolto, a sua volta, disponibilità di tempo e di attenzione. Se vogliamo che le nuove generazioni non siano allevate dagli influencer nella “fiera delle vanità” della società massificata, bisogna che noi adulti riscopriamo il volto dei singoli e impariamo di nuovo ad ascoltare i loro problemi, le loro angosce, i loro desideri. Che usciamo dalla logica perversa del negoziato sui “sì” e sui “no”, a cui spesso si è ridotto il rapporto in famiglia, o dei programmi e delle interrogazioni, a scuola, e ritroviamo il gusto di parlare davvero.
Il clima concentrazionario creatosi in certe case, o l’aridità estenuante della Dad in certe classi, potrebbero essere sconfitti da genitori e insegnanti che si sforzino di capire di più i problemi dei loro figli e dei loro alunni, le loro angosce, i loro desideri e imparino, attraverso questo ascolto, ad essere più creativi e attrattivi degli influencer.
Un nuovo rapporto con i mezzi tecnici
Ciò comporterebbe un nuovo rapporto con gli strumenti di comunicazione. Invece di “posteggiare” il figlio, fin da piccolo, davanti al tablet, per “farlo stare buono”, i genitori dovrebbero giocare con lui. Invece di regalargli lo smartphone quando ha undici anni (o forse meno), dovrebbero dedicargli del tempo per ascoltarlo. E poi dovrebbero stargli accanto e seguirlo, non con un controllo fiscale, ma puntando su una partecipazione alle sue esperienze che suppone la condivisione dei suoi interessi. Aiutandolo a decodificare e a selezionare i messaggi che da ogni parte ormai ci inondano sulla rete.
Così anche la scuola non può illudersi che la digitalizzazione risolva da sé i problemi. È l’uso che le persone fanno di questi mezzi a renderli umani oppure no. E i mezzi più perfezionati possono favorire, non sostituire il clima di ascolto reciproco che permette alla relazione educativa di instaurarsi e di svilupparsi.
Per cambiare le strutture, cominciamo dalle persone
Probabilmente la pandemia, purtroppo, avrà ancora tempi lunghi. Sufficienti a raccogliere la sua sfida, se si vorrà farlo. O a generare altre catastrofi, se non lo si vorrà. Certo, il cambiamento della società non può dipendere solo dall’impegno dei singoli. C’è un quadro politico, sociale, economico, in cui l’attuale crisi educativa si inserisce e in cui va collocato anche il fenomeno degli influencer. Ma, alla fine, anche le condizioni strutturali possono essere cambiate solo se le persone saranno diverse. Perciò vale la pena di cominciare da loro.
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