La figura e la morte di Sergio Marchionne sono state, in questi giorni, al centro di innumerevoli commenti e sviscerate dai più diversi punti di vista. La sola cosa che forse non ci si è chiesti è il loro significato simbolico, in una società che ha ormai fatto del successo professionale la meta fondamentale della vita.
Di questa visione dell’esistenza Marchionne non era certamente l’unico esempio, ma forse il più riuscito. Lo dicono le tante testimonianze relative ai suoi interessi, al suo modo di gestire le giornate, all’immagine che aveva costruito di sé agli occhi degli altri e probabilmente anche ai suoi. Lo dicono i risultati eccezionali ottenuti come Amministratore delegato della Fiat e poi della Fiat Chrysler Automobiles (Fca). Il manager neocapitalista perfetto. E, come tale, amato, odiato, invidiato, ossequiato da collaboratori, uomini d’affari, politici, gente comune.
Un modello, soprattutto per i nostri giovani. Non solo perché legittimamente ansiosi – come sempre è avvenuto – di trovare un lavoro economicamente remunerativo e socialmente riconosciuto. Ma anche – e questo è invece una caratteristica del nostro attuale clima culturale – perché è quasi esclusivamente nel lavoro che si pensa di potersi realizzare. La dimensione affettiva, un tempo determinante, viene ormai letta in relazione alle esigenze professionali e relativizzata ad esse.
Questo primato assoluto del valore-lavoro fino a pochi decenni fa era tipico degli uomini. La rivoluzione femminista, come effetto collaterale della giusta emancipazione delle donne da un ruolo puramente casalingo, ha esteso anche a loro questa logica, oscurando o almeno ridimensionando altri valori – tradizionali del genere femminile e più legati alla sfera relazionale – con evidenti ripercussioni, non solo sui rapporti sentimentali, ma anche sulla disponibilità ad avere figli, a volte visti come un ostacolo nella carriera.
Siamo immersi, insomma, in quello che già anni fa Josef Pieper definiva «il mondo totalitario del lavoro», dove un soggetto conta per le attività che svolge in campo professionale, qualificate in base alle loro implicazioni in termini economici e di potere. Di uno che si afferma in questo ambito si dice che è “qualcuno”. Altrimenti è “nessuno”.
Marchionne – parlo del personaggio, dell’immagine pubblica, non della persona, che solo Dio conosce fino in fondo – era l’emblema di questa “filosofia” oggi dominante. Ed ora che è morto, fiorisce intorno a lui la leggenda, come un tempo avveniva per le grandi figure di santi cristiani o di saggi delle diverse religioni.
Ma proprio questo spontaneo paragone ci spinge a chiederci cosa renda diverso un simile modo di intendere una piena realizzazione umana, una “vita ben vissuta”, rispetto a quelli offerti dalle tradizioni sapienziali e religiose del passato in cui fino a poco tempo fa, anche in Italia, ci riconoscevamo.
Il confronto con l’esperienza della malattia e della morte – reso attuale, in questo caso, dalla vicenda di Marchionne – fornisce una possibile chiave di lettura. La concezione che subordina il valore della vita al lavoro che si svolge e al suo successo non lascia alcuno spazio alla fragilità e alla vulnerabilità degli esseri umani. Quello che conta è il risultato, e questo dipende dall’efficacia dell’operatore. Non si ammettono cedimenti, pause (per la donna, la gravidanza e il parto), distrazioni dall’obiettivo che ci si è prefisso. Bisogna fare, produrre, realizzare. Il tempo è prezioso, è denaro…
E se anche non si tiene tanto ai soldi quanto alla riuscita del proprio progetto in quanto tale – come sembra che sia stato nel caso dell’Ad della Fca –, non ci si possono permettere né soste né debolezze. Non a caso sembra che Marchionne si concedesse pochissime vacanze e abbia accettato di recarsi in una clinica per curarsi solo quando alla fine non ha potuto farne a meno. Quasi non avesse tempo per morire…
È uno stile che coinvolge ormai anche le attività ludiche e ricreative. Il diffondersi di droghe eccitanti, soprattutto tra i giovani e nelle discoteche, è legato anche al bisogno di sostenere ritmi sempre più frenetici e prestazioni sempre più impegnative. Perciò si cerca di avere quante più cose e di fare quante più esperienze sia possibile, di riempirsi la vita senza lasciare il minimo spazio libero. Chi vacilla, chi si ferma, chi non ce la fa, è finito. E si sente tale.
Per questo anche nella nostra società la malattia e la morte, che in passato erano vissute comunitariamente dalle famiglie, dagli amici e dal vicinato, oggi vengono esorcizzate e nascoste, circoscrivendole – come è avvenuto anche nel caso di Marchionne – dentro spazi specializzati, asettici (cliniche, ospizi per vecchi…), lontani dagli sguardi, depotenziandone il più possibile la drammaticità.
La tradizione cristiana – che qui scegliamo perché è la più vicina a noi – ha sempre avuto una visione diversa della vita, dove ciò che conta non è ciò che si fa, ma ciò che si è, e dove la fragilità e il limite non sono ostacoli, da eludere, alla massimizzazione delle proprie prestazioni, ma preziosi compagni di strada, da accettare con gratitudine perché maestri di saggezza nel rapporto con se stessi, con gli altri e con Dio.
Già, Dio. Nel mondo totalitario del lavoro il solo protagonista è l’homo faber, il manager, il demiurgo che trasforma il mondo circostante con il suo potere tecnico. Dio non viene negato – l’ateismo è in ribasso nel mondo post-industriale –, ma di fatto non c’è più bisogno di lui. Soprattutto, non c’è più tempo per porsi il problema. Chi ha un lavoro perché ne è totalmente assorbito. Chi non ce l’ha, perché si sente troppo frustrato e pensa solo a come trovarne uno.
Nella prospettiva cristiana il riferimento a Dio non esonera dal lavorare, cercando ragionevolmente di farlo con successo. Ma il lavoro rientra in un orizzonte più vasto, dove il senso del suo limite lo rende conciliabile con i rapporti umani nello stesso ambito lavorativo, con quelli di amicizia, con quelli familiari. Più a monte, con le pause di calma, di silenzio e di solitudine che consentono di contemplare la natura, di ascoltare gli altri, di ritrovare se stessi, di pregare…
Non sappiamo chi sia stato veramente l’uomo Marchionne. Ci inquieta, però, che il personaggio – quello che qui ci interessa – venga osannato e assunto come modello di vita da milioni di giovani che probabilmente non riusciranno a imitarne la genialità imprenditoriale, ma si sforzeranno di riprodurne la dedizione totale all’attività lavorativa. Certo ce ne saranno, tra essi, di quelli che pensano così di rendere, come pretendeva di fare l’Ad della Fca (ma su questo ci sarebbero molte riserve da avanzare) un prezioso servizio alla società. Ma, se il lavoro risucchia l’umanità del lavoratore, alla fine è il meccanismo del neocapitalismo a trionfare. Anche se l’esperienza della morte, per cui malgrado tutto siamo costretti a trovare il tempo, continua a ricordarci che la fragilità, il limite, la bellezza di ciò che è “inutile” contribuiscono in modo decisivo a rendere umana la nostra vita.
Lascia un commento