Mai, forse, l’Italia era stata più vistosamente lacerata, dopo la seconda guerra mondiale, come in queste settimane che hanno assistito al formarsi e al primo esordio del “governo del cambiamento”. Non dimentico che siamo stati sull’orlo della guerra civile, il 14 luglio 1948, dopo l’attentato a Togliatti, né sottovaluto le tensioni suscitate dall’approvazione della cosiddetta “legge truffa”, con cui la Dc tentò, vanamente, di acquistare la maggioranza assoluta nelle elezioni del giugno 1953. Ciò che però caratterizza il dibattito attuale, rispetto a questi e ad altri momenti critici della nostra storia recente, è la partecipazione massiccia e diretta di gran parte della popolazione, attraverso i sondaggi e soprattutto i social, che costituiscono ormai il principale veicolo di informazione e di formazione dell’opinione pubblica, scavalcando anche i giornali e la televisione.
Si può guardare a questa novità sottolineandone l’aspetto positivo: ormai chiunque – e non più soltanto una élite di “addetti ai lavori” (giornalisti, politici di professione, etc.) – può esprimere il proprio parere influendo sulla linea politica dei governanti e rivolgendosi a una cerchia di persone immensamente più vasta di quella della propria famiglia, dei propri amici o dei frequentatori del bar sotto casa.
Oppure se ne può rilevare la problematicità e il pericolo, che sono quelli della democrazia diretta, dove, in assenza del filtro garantito, in quella parlamentare, da una categoria di “esperti” della politica – scelti dal popolo ma dotati, almeno in linea di principio, di competenze e di maturità di giudizio superiori alla media – , il confronto politico rischia di svolgersi sulla base delle emozioni della massa più che di una ponderata valutazione dei problemi.
Si obietterà che il Parlamento in Italia non è stato abolito. Ma basta guardare a queste prime settimane della “Terza Repubblica” per constatare che la sua capacità di orientare le scelte dello Stato è attualmente minima. A dominare la scena sono stati i “campioni” del popolo, primo fra tutti il leader della Lega, Salvini, che non a caso ha avuto nelle trattative per la formazione del governo, e continua ad avere all’interno del governo ormai costituito, un peso immensamente superiore a quel 17% di voti assegnatogli dalle elezioni del 4 marzo e dei suoi 125 deputati e 58 senatori (contro i 221 deputati e i 112 senatori dei 5stelle!).
Nella democrazia diretta quello che conta è il carisma del “capo”, non il numero dei voti o dei parlamentari. E Salvini ha potuto più volte affermare di rappresentare 60 milioni di italiani, comportandosi di fatto come se invece del 17% avesse davvero avuto una investitura plebiscitaria. Lo abbiamo visto così pronunziarsi infaticabilmente su tutta una serie di questioni: dalla chiusura dei porti, che spettava al ministro per le infrastrutture; all’opportunità di mantenere o meno i rapporti con la Francia, su cui a rigore solo il presidente del Consiglio, o, al massimo il ministro degli esteri, erano competenti; alla realizzazione di una “pace fiscale” (leggi: condono), che doveva se mai essere dichiarata dal ministro dell’economia; all’ inutilità dei vaccini, questione riservata, ovviamente al ministro della salute.
Solo per quanto riguarda il “censimento” dei Rom il suo intervento rientrava nella sfera delle sue competenze. Ma, anche in questo caso, colpisce il fatto che questa posizione sia stata pubblicizzata – come del resto le altre – non all’indomani di una riunione del consiglio dei ministri e su mandato di questo, ma a caldo, chiedendo se mai a posteriori la solidarietà dei suoi colleghi di governo, che in tutti questi casi alla fine gliel’hanno data (tranne Giulia Grillo), quasi trascinati dal suo slancio e dal consenso dilagante segnalato dai sondaggi e traboccante sui social.
La dimensione istituzionale della democrazia – come era già stato evidente nel modo di condurre la trattativa di governo – è volutamente ignorata o, al massimo, sopportata con ostentata impazienza, come un incomprensibile retaggio burocratico del passato, di cui liberarsi quanto prima. Il “capo” mima l’insofferenza dell’uomo della strada verso le lungaggini e le trappole del diritto, lasciando capire che è dalla sua parte e che dietro queste forme astratte ci sono gli interessi oscuri dei “poteri forti”. Così, se il presidente della Repubblica esercita le sue prerogative nella scelta dei ministri, il capo segretario di un partito – non il presidente incaricato – strepita denunciando la sottomissione del Paese alla finanza internazionale; se il presidente del Consiglio decide di recarsi a Parigi, il ministro degli interni ci tiene a far sapere di avere dato il proprio consenso…
In assenza di un qualsiasi contraddittorio a livello di governo e di Parlamento (Di Maio è del tutto oscurato, pur avendo quasi il doppio della rappresentanza parlamentare), alla massa crescente dei sì, che, fuori delle logiche parlamentari, danno sempre più potere alla Lega, si oppone, sempre sui social, il rifiuto di chi non è d’accordo e ci tiene a sottolinearlo in forme spesso molto simili. Abbiamo così una battaglia – per fortuna solo verbale – a base di insulti feroci, di reciproche irrisioni, di fake news tanto più “virali” quanto più fantasiose. Nella migliore delle ipotesi, a chi cerca di portare argomenti si risponde con insinuazioni e sprezzanti attacchi che superano di molto il confine della volgarità.
Se non bonifichiamo, di comune accordo, questo clima avvelenato, il solo vincitore sarà chi ha meno argomenti e quindi ha più da perdere in un confronto pacato. Personalmente – l’ho detto – sono molto critico nei confronti di Salvini. Ma non penso che insultarlo sia corretto. E nemmeno proficuo. Se la mia diagnosi è giusta, il problema è di riattivare i canali istituzionali della democrazia parlamentare, rifiutando lo stile di chi, prescindendone, ci sollecita a fare altrettanto. Se entriamo nella spirale della violenza verbale, potremmo anche vincere (in realtà è improbabile), ma sarebbe una vittoria di Pirro, perché avremmo solo opposto un populismo ad un altro. La democrazia deve sapersi difendere restando se stessa. E l’arma della democrazia è la ragione che, per sua natura, garantisce alla comunicazione un carattere pubblico, cioè condivisibile (almeno in linea di principio) da chiunque voglia accettarne le regole.
Allora, invece di sputare improperi contro Salvini, sarà più efficace, per esempio, far notare garbatamente ai suoi sostenitori che non si può fare appello all’Europa per essere aiutati nella questione dei migranti e, nello stesso tempo, rivendicare il “prima gli italiani” del sovranismo. O si accetta di portare avanti l’unità europea rafforzandola e rinunziando così progressivamente alla contrapposizione tra gli Stati implicita nel “prima noi” (ma Salvini questo non lo vuole), o si deve riconoscere il diritto degli altri di pensare anch’essi prima ai loro cittadini, come del resto fanno l’ungherese Orban e l’austriaco Kurtz, gli alleati del nostro ministro degli interni. Col risultato disastroso di restare sempre più soli. A meno di supporre (come talora sembra pensare Salvini) che l’Italia, seguendo gli Stati Uniti di Trump (di cui Salvini imita quasi tutto), possa pretendere di imporsi con la forza agli altri Stati, piegando il loro sovranismo al nostro. Che sarebbe un ritorno alle tensioni da cui in passato sono nate le guerre devastanti dei secoli scorsi. Ma, soprattutto, sarebbe l’occasione per scoprire, a nostre spese, che noi non siamo gli Stati Uniti.
Lascia un commento