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I Chiaroscuri – La sfida della pedofilia scuote la Chiesa

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La Chiesa sotto processo?

Non so perché, ma ho la netta sensazione che il summit convocato da papa Francesco in Vaticano, per discutere della protezione dei minori, si sia aperto in un clima di diffusa sfiducia nei confronti della gerarchia ecclesiastica – vescovi, cardinali e papa compresi –, finendo per assomigliare a un processo davanti al tribunale inflessibile dell’opinione pubblica.

Rafforza questa impressione la pesante contestazione che una parte della comunità cristiana – laici, ma anche preti e qualche vescovo e cardinale – rivolge da tempo nei confronti del pontefice in carica, con abbondanza e varietà di insulti e vituperi (basta leggere in Italia gli articoli – e i relativi commenti da parte dei lettori – su quotidiani come «Il Giornale», o «Libero», o «La Verità»), accusandolo di avere determinato un tracollo dell’istituzione ecclesiastica e auspicando apertamente le sue dimissioni o il suo decesso.

Come spesso accade, in questi casi, ci si trova immersi, così, in una nebulosa emotiva, che rende difficile un giudizio sereno. Mi sembra utile, allora, cercare di enucleare alcuni fatti che possono essere considerati indiscutibili.

Chiesa e pedofilia: alcuni fatti

Il primo che balza agli occhi è che, all’interno della Chiesa, ci sono stati, in modo continuo e diffuso, innumerevoli episodi di inaudita violenza fisica e psicologica nei confronti di innocenti e che gli autori di queste violenze sono stati uomini che hanno approfittato della loro investitura di presbiteri e di vescovi per esercitarle impunemente, tradendo la fiducia di chi vedeva in loro dei pastori e affidava loro senza riserve i propri figli.

Il secondo fatto è che la gravità di questo fenomeno è stata a lungo misconosciuta o nascosta da chi, per il proprio ruolo di responsabilità (vescovi, superiori…), aveva il dovere di intervenire drasticamente, favorendo così il suo permanere e la sua diffusione ai danni di sempre nuove vittime.

Il terzo fatto è che a denunziare questi abusi non sono stati, inizialmente, né vescovi né papi, come avrebbe dovuto accadere, ma le stesse vittime, una volta cresciute e messe in grado di farsi ascoltare.

La svolta incompiuta

Il quarto fatto è che il primo pontefice a dare grande rilievo a questo problema – di sicuro perché spinto dal montare degli scandali, ma anche con personale iniziativa, portando alla luce elementi nuovi, al di là di ciò che già si sapeva – è stato Benedetto XVI, sulle cui orme si è mosso papa Francesco.

Il quinto fatto è che gli abusi venuti alla luce, nella stragrande maggioranza sono stati consumati nel passato e non possono essere addebitati alla svolta dottrinale e pastorale contestata a papa Bergoglio, anzi se mai rivelano che il passato stile ecclesiale, esaltato dai suoi oppositori come il solo conforme alla tradizione cattolica, comportava, dietro le apparenze di sacralità e di rigore, un largo margine di ipocrisia, confermando così l’esigenza dell’attuale pontefice di rinnovarlo profondamente.

Il sesto fatto è che, malgrado gli sforzi di Francesco, i sistemi di reclutamento e di formazione del clero, nonché le relazioni tra presbiteri, quelle tra i presbiteri e i laici, quelle tra i vescovi e i loro presbiteri, restano gli stessi che si sono da tempo rivelati inadeguati alle esigenze del nuovo contesto storico e che hanno reso possibile il nascere e il diffondersi nella Chiesa del fenomeno della pedofilia.

La colpa è del celibato?

Il settimo fatto da prendere in considerazione è che comunque, secondo tutte le statistiche proposte da agenzie internazionali non sospette di clericalismo (a cominciare dall’Unicef), non è la Chiesa, bensì la famiglia, l’ambiente in cui si realizza il maggior numero di abusi sui minori.

Non è dunque il celibato dei preti, come spesso si sente ripetere, la causa del fenomeno. Il polarizzarsi dell’indignazione pubblica sulla Chiesa è perfettamente comprensibile, ma non per la quantità oggettiva di casi di perversione dei suoi membri, bensì per la particolare responsabilità di questi ultimi, che pretendevano di essere ministri di Dio.

 

La crisi di credibilità della Chiesa

L’ottavo fatto è che la crisi di credibilità che sta investendo la Chiesa, se da un lato rivela le aspettative che la gente ha avuto e in parte ha nei suoi confronti (che un prete sia un “orco” indigna di più che se si tratta di un avvocato o di un operaio), dall’altro evidenzia anche il più generale processo di allontanamento in atto sia Europa che (sia pure in misura minore) negli Stati Uniti.

Il nono fatto – connesso al precedente come suo effetto, ma anche come sua causa – è che oggi la Chiesa, se prospera in Africa e in America latina, ha sempre minore peso culturale e spirituale nelle società dove tradizionalmente era radicata e da cui partivano le sue “missioni ad gentes”.

Il decimo fatto – che probabilmente è alla radice degli altri due – è che l’inadeguatezza della comunità ecclesiale al momento storico che viviamo non si manifesta solo sotto il profilo psicologico, come rivelano gli scandali della pedofilia, ma anche sotto quello spirituale, culturale e pastorale.

L’infondatezza delle accuse a Francesco

Alla luce dei fatti sopra elencati, mi sembra di dover concludere che il pontificato di papa Bergoglio non è colpevole della crisi che si è trovato ad ereditare, anzi ha il merito di non cercare di nasconderla (rendendola così più grave), ma di affrontarla a viso aperto.

I suoi detrattori non si rendono conto che cavalcarla – come ha fatto per esempio monsignor Viganò, chiedendo le dimissioni di questo papa per episodi risalenti a molti anni fa – significa solo screditare proprio quelle precedenti stagioni ecclesiali di cui essi si dicono nostalgici e avallare la volontà di cambiamento dell’attutale papa.

Le misure concrete necessarie, ma non sufficienti

Questi fatti rivelano anche, però, che il vero problema non è solo la pedofilia.

Ben vengano le misure – il più possibile «concrete», come ha tenuto a chiedere Francesco aprendo il convegno in Vaticano – per evitare il ripetersi di questi casi drammatici.

Dando la precedenza a quelle che riguardano la prevenzione, rispetto alla rilevazione e alla repressione del fenomeno. Penso in particolare a una formazione molto più attenta agli aspetti psicologici della personalità dei futuri presbiteri.
Troppo a lungo si sono trascurate, nei seminari, la dimensione affettiva e quella sessuale, dimenticando che un essere umano non è un “puro spirito” o, peggio ancora, un “cervello pensante”.

Una impostazione educativa meno unilateralmente spiritualistica e intellettualistica non solo aiuterebbe i futuri presbiteri a risolvere, o almeno ad affrontare correttamente, le tensioni e le contraddizioni legate alla sfera sessuale, ma permetterebbe di individuare fin dall’inizio i casi propriamente patologici, evitando che giungano all’ordinazione.

Le vere dimensioni della sfida

Ma tutto ciò non basta per raccogliere la sfida che la pedofilia pone oggi alla Chiesa. La concentrazione esclusiva sul fenomeno patologico rischia di far perdere di vista che esso rivela altri vuoti, che riguardano da un lato la formazione umana e cristiana dei preti, dall’altro l’assetto del tessuto relazionale nella comunità presbiterale e in quella cristiana nel suo insieme.

Il rischio è, allora, di credere che i problemi della Chiesa saranno risolti quando si riuscirà a debellare il fenomeno dei preti pedofili. Ciò che più la minaccia, al suo interno e nella sua missione verso il mondo d’oggi, non è la pedofilia dei presbiteri, che spesso è un effetto, ma la mediocrità in cui rischiano di essere impantanati i loro problemi irrisolti di umanità, la loro difficoltà nel trovare e mantenere viva una creatività spirituale e culturale.

Un prete che interpreta la propria vocazione nella pienezza umana ed evangelica che essa comporta – e molti di noi ne hanno incontrato qualcuno! – non può essere neppure tentato dalla pedofilia, perché è troppo impegnato ad amare e servire il suo Dio e i suoi fratelli.

È a questo che papa Francesco instancabilmente esorta, con le sue (spesso incomprese) frecciate allo stile di vita troppo borghese di preti e prelati, o al loro “carrierismo”. Ma di questo bisogna che ci sentiamo tutti responsabili, nella Chiesa, vescovi, preti e laici, ognuno secondo il suo ruolo e il suo dono.

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