A cinque mesi dalla nascita del “governo del cambiamento” (1 giugno – 1 novembre), è lecito provare a fare un bilancio, ovviamente solo provvisorio, di ciò che in Italia effettivamente sta cambiando. Partendo – per definire la vera, decisiva novità – dalle parole con cui il premier Giuseppe Conte ha assunto il concetto, fin qui demonizzato, di “populismo”, come il paradigma con cui interpretare la Carta costituzionale: «Populismo e sovranismo? Personalmente non ho una concezione negativa di queste parole che richiamano l’articolo 1 della Costituzione: la sovranità appartiene al popolo».
E, in effetti, se “populismo” significa che viene eliminata ogni mediazione tra la base e chi gestisce il potere, instaurando così un regime di democrazia diretta, fondato sull’onda dell’opinione pubblica, piuttosto che sulle regole istituzionali, quello a cui abbiamo assistito in questi cinque mesi è un ottimo esempio di populismo. Emblematica la delegittimazione di tutti coloro – funzionari, giudici, giornalisti, intellettuali – che non sono espressione diretta della volontà popolare. Col risultato di assolutizzare il ruolo della politica e il primato dei numeri della maggioranza sul valore delle competenze e delle idee.
Ma significativo è stato anche il definitivo oscuramento del ruolo del Parlamento, ridotto a puro e semplice spettatore degli accordi personali dei leader (il “contratto”, firmato volutamente dai “signori Salvini e Di Maio”, senza riferimento ad alcun titolo istituzionale) e delle loro prese di posizione su twitter o nei salotti televisivi. Come ha detto, senza alcuna reticenza, il sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio, Giorgetti, «il Parlamento non conta più nulla perché non è più sentito dai cittadini elettori che vi vedono il luogo della inconcludenza della politica».
Certo, c’è qualche problema. Uno è che, anche a dar credito ai sondaggi che danno attualmente la Lega al 30% e i 5stelle al 28%, la reiterata affermazione di Salvini di operare «a nome di 60 milioni di italiani» non tiene conto di una consistente minoranza che non è d’accordo. A questo punto la volontà, più volte ribadita, di «mantenere gli impegni presi con gli italiani» si rivela, in realtà, la volontà di mantenere gli impegni presi con i propri elettori, in netto contrasto con ciò che chiedono il restante 40% dei cittadini. Nella democrazia parlamentare si poteva ancora discutere, assumendo come criterio ultimo non le rispettive promesse elettorali, ma le esigenze e il bene della comunità nel suo complesso; in quella fondata sull’onda delle acclamazioni o delle invettive rabbiose veicolate dai social, no. Chi è più forte «tira dritto», come ama ripetere il nostro ministro degli Interni.
Ma il problema più grosso è che i populismi in campo, fin dalla nascita del governo, sono stati due. Uno, quello dei 5stelle, esprimeva una profonda insofferenza verso la “casta” e l’operato dei governi precedenti. Perciò teorizzava che al governo dovessero andare “uomini e donne qualunque” e non politici di professione. E contestava con violenza, come ruberie ai danni degli italiani, i vitalizi dei parlamentari, le pensioni d’oro, i condoni fiscali, la riforma Fornero sulle pensioni, la Tap, la Tav, il Muos (sistema di radar americani in Sicilia), promettendo, in positivo, una misura sociale come il reddito di cittadinanza. Insomma, una rivoluzione.
L’altro populismo era quello della Lega. Lo si è definito “di destra”, contrapponendolo a quello pentastellato, etichettato come “di sinistra”. Ma la differenza, in realtà, era molto più profonda. Perché in questa versione, il populismo non puntava su un nuovo personale politico, bensì su due consumati uomini di partito, come erano Salvini, leader cresciuto nella vecchia Lega di Bossi e di Maroni (anche se ora in rotta con loro) e Berlusconi, leader di Forza Italia. E i progetti di questo populismo non erano affatto rivoluzionari, rispetto al passato, ma avevano il loro fulcro nell’abbassamento delle tasse ai ricchi (la flat tax), sulla linea dei governi di Berlusconi, e nella chiusura verso gli stranieri (sulla linea della legge Maroni-Fini, che già aveva criminalizzato la clandestinità).
Erano, insomma, le logiche della Seconda Repubblica, riciclate e mascherate dietro un nuovo stile “macho” – perfettamente interpretato da Salvini – , capace di parlare alla “pancia” degli italiani, contando sulla loro mancanza di memoria, per far loro dimenticare – come di fatto è accaduto – che le situazioni aberranti contro cui si gridava a gran voce (il trattato di Dublino sui migranti, il mantenimento dei vitalizi e delle pensioni d’oro, etc.) erano state in larga misura varate o avallate da governi di cui la Lega faceva parte.
Dopo cinque mesi di governo, non si può non constatare che uno dei due populismi, il primo, ha perduto, mentre il secondo – pur senza avere ancora in realtà fatto nulla, al di là dei proclami verbali – è largamente vincitore, almeno a livello di immagine. Di Maio è stato la prova vivente che l’idea populista secondo cui l’“uomo qualunque” può governare è falsa. Indimenticabili le sue gaffe tragicomiche (come l’impeachment, poi ritirato, nei confronti di Mattarella o la tesi della “manina” che avrebbe modificato, in due occasioni, i testi degli accordi fatti). Il “professionista” Salvini – che pure poteva contare su una base elettorale di poco più della metà – lo ha sovrastato, maramaldeggiando ai danni di tutti gli altri ministri e attirandosi un numero sempre crescente di consensi e costruendosi l’immagine di futuro premier ideale (e assoluto).
Ma non è questo il fatto più grave per i 5stelle. Il problema è che, a parte l’abolizione dei vitalizi, questi cinque mesi di governo li hanno visti abdicare su tutti i punti sui quali avevano investito la loro credibilità: la Tap si farà, il Muos resterà in funzione e forse si amplierà, la Tav è in bilico, il condono fiscale si farà, il taglio alle pensioni d’oro, la riforma delle pensioni e il reddito di cittadinanza sono slittati. E taccio sulla gestione, anch’essa tragicomica, del problema dei vaccini e della vicenda dell’Ilva, così come sul balletto seguito al crollo del ponte di Genova. Unica vittoria, ma di Pirro, il decreto dignità, pieno di limitazioni e avversatissimo dal mondo dell’industria, il cui effetto principale sembra quello di aver rilanciato la disoccupazione. Nessuna meraviglia che la base dei 5stelle sia in rivolta e che anche tra deputati e senatori stia maturando una fronda che Di Maio cerca invano di sedare minacciando espulsioni.
Per mascherare questa Waterloo, i vertici pentastellati hanno tirato in ballo un complotto internazionale. Per sopperire alla sua inesistenza, essi non hanno esitato a inventarlo. Così Di Maio non ha esitato ad accusare pubblicamente il presidente della Banca centrale europea, Draghi, di voler sabotare la manovra economica, vedendosi peraltro sconfessato dai suoi stessi colleghi di governo. Ed è di questi giorni la diffusione sulla pagina fb dei 5stelle di una intervista all’ex presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, in cui egli avrebbe incitato a speculare per far crollare l’economia italiana, che si è rivelata una totale falsificazione dell’originale, in cui, anzi, Dijsselbloem spendeva parole di fiducia vero l’Italia. Mosse rivelatrici di uno stato confusionale, se non di una vera e propria disperazione.
Che dire? Non sono mai stato un ammiratore e tanto meno un sostenitore dei 5stelle, che ho sempre considerato pericolosi a sé e agli altri. Ma devo ammettere di essere rattristato nel constatare che, di questo “governo del cambiamento”, rischia di rimanere un populismo della conservazione, fedele alla regola gattopardesca che si deve cambiare tutto per non cambiare niente.
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