«Dio è invisibile, Dio è inconcepibile, dunque oggi, un artista non può presentare Dio su una poltrona con il mondo in mano, la barba».
L.F.
Il gesto: tagliare una tela
F: Ho rivisto dopo tanti anni la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Questa volta sono andato con mia sorella… che – pensa un po’! – tra le tante cose, è rimasta colpita dalle opere di Lucio Fontana – dai cinque tagli sulla tela bianca di “Concetto spaziale – Attesa” (1968) alla sventagliata di buchi del “Concetto spaziale – Teatrino” (1965).
Evidentemente è riuscita ad andare oltre l’immediato “lo so fare anch’io”, ed ha colto la potenza iconoclasta e la forza evocativa di questi gesti ‘distruttivi’.
L: In effetti tagliare una tela non è un gesto semplice. Nella mitologia la tela viene tessuta dalle Parche: Clotho, Lachesis e Atropos, uniche madri in possesso delle forbici per tagliare il filo della vita. La tela è una cosa che mai il pittore ferirebbe, come l’icona del rock non distruggerebbe o darebbe fuoco alla propria chitarra… perché lo facevano allora?
Insomma, mi chiedo se l’atto estremo dei due abbia delle cose in comune: sfogo di rabbia, trovata pubblicitaria, sacrificio, o gesto politico? I due gesti assumono significati tra loro paragonabili? Il taglio di Lucio Fontana è un gesto assoluto, dai livelli di lettura molteplici, anche se ha generato e genera ancora perplessità nel vasto pubblico, o si tratta davvero, come molti nostri studenti spesso affermano, di una provocazione vuota di significato, che chiunque avrebbe potuto lanciare al mondo dell’arte?
Oltre l’idea di arte come “inarrivabile perizia”
F: Capisco gli studenti…l’elementarità del gesto sembra implicarne l’accessibilità a chiunque. E questo è molto lontano dalla
inarrivabile perizia che ad esempio si coglie dietro i capolavori della tradizione classico-rinascimentale. Insomma, è il passaggio dal “ma come ha fatto?” che pronunciamo davanti a Caravaggio al “lo so fare anche io!”, che inevitabilmente viene fuori davanti a Fontana – causato da una sorta di ‘inerzia epistemologica’ che ci porta a guardare due cose così diverse con gli stessi occhi.
Per cui non direi che i suoi tagli, o anche i buchi, siano ‘vuoti di significato’. E certamente non sono privi di conseguenze: l’atto distruttivo può essere infatti anche un atto ‘fondativo’.
L’architettura – la più ‘costruttiva’ delle arti – nasce dalla distruzione, ad esempio: lo scavo di fondazione è un atto di distruzione della crosta terrestre. La distruzione è dunque l’introduzione di una ‘discontinuità’, a partire dalla quale si può (ri)costruire. O contemplare il nuovo ordine rivelato dalla distruzione… Guarda Gordon Matta-Clark: la sua “Conical Intersect” (1975) è fatta da tagli circolari su due edifici abbandonati di Parigi – che nel distruggerlo ne mostrano nuove potenzialità e introducono un nuovo rapporto tra l’edificio e la città.
Credo che un ragionamento simile sulla ‘fondatività’ della distruzione possa essere esteso ai gesti di Fontana.
La distruzione della tela come liberazione radicale
L: Lo penso anch’io. Per Hendrix non so. Ma se guardiamo al suo gesto, potrebbe avere in comune con quello di Fontana il carattere ribelle. Cattelan in “Untitled” (1986) rende omaggio a Fontana con tre segni su una tela monocroma che riproducono la “Z” di Zorro, scegliendo, tra le tante possibili chiavi di lettura dei tagli, quella dell’eroe irriverente che combatte contro il sistema dell’arte. L’azione potrebbe allora intendersi come una sorta di sacrificio di qualcosa di ‘sacro’ per dichiararsi liberi.
F: Quindi un gesto distruttivo come atto di liberazione. Anzi, di liberazione radicale, direi.
La cosa interessante – e dirompente – è infatti che, di fronte al “grado zero della pittura”, che è la tela bianca, Fontana invece di fare un passo avanti, o al limite nessun passo, fa…un passo indietro! Buca, taglia… “Meno di zero”! Perché sembra mettere in discussione il presupposto stesso, il ‘principio di individuazione’, dell’atto pittorico…
La dimensione materiale dell’opera d’arte
L: Ed è anche come se il taglio ci riportasse proprio alla dimensione materiale apparentemente negata dal taglio stesso. Perché tu non vedi le figure di un dipinto, dimenticando così la tela. Vedi la tela. E il fatto che è una tela te lo ricorda proprio il taglio.
Come un dolore fa percepire una parte del corpo, come una sofferenza riporta a una dimensione umana. Il passaggio successivo è che l’opera domanda quasi letteralmente un superamento, un passaggio dalla superficie alla rottura della superficie. In questo senso l’artista distrugge, per costruire.
L’immagine archetipica della ferita riconduce ad una rottura del tessuto fisico ma anche psichico (e le ferite psichiche generano nuove dimensioni dell’essere).
Dunque l’artista non vuole in realtà violare la tela soltanto per il gusto di fare qualcosa di inedito, ma aprire uno ‘stargate’ per attraversare la dimensione ordinaria ed entrare in una realtà inaccessibile alla maggioranza, per passare oltre, all’opposto. Anche in ambito mitologico infatti la ferita, vista come apertura, è la porta verso una potenziale trasformazione, una finestra su una storia nascosta. Così l’artista ci riconduce alla materialità nuda e cruda per affrontarla e superarla.
Milan Kundera, evocando l’arte di Fontana, ha scritto: «La domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro».
F: E’ vero, l’astrazione del ‘quasi nulla’ passa per il concretissimo gesto di tagliare la tela; e finisce per essere un’operazione più vicina alla scultura: perché chiama in causa la tela come fatto fisico – che nella pittura in fondo ‘sparisce’ dopo che ci hai dipinto sopra. Dunque, pensandoci meglio, il taglio sulla tela non nega la materia ma la rivela, facendo collassare quasi interamente sulla materia la componente formale dell’opera.
Quasi interamente. Perché, a dire il vero, il taglio – ‘non-tela’ – è in fin dei conti ‘forma’, seppur residua, che emerge in virtù della mera negazione della materia. Insomma, un’operazione raffinatissima – e densamente filosofica!
Rappresentare l’assoluto: l’infinito oltre il finito della materia lacerata
L: E dunque sarebbe davvero riduttivo guardare al suo gesto semplicemente come a un atto liberatorio, anticonformista o di azzeramento. Fontana è anche l’artista che ritrova il dialogo interrotto tra arte contemporanea e arte sacra, trovando un nuovo modo, non figurativo, di rappresentare l’assoluto.
E certamente in Fontana c’è una ricerca filosofica… e non è possibile escludere che sia di matrice cristiana.
F: Beh, sappiamo che Fontana non è solo quello dei “Concetti spaziali”… che nella sua produzione ci sono interessantissimi esempi proprio di arte sacra – penso ad esempio alla sua “Via Crucis” bianca. Ma lo pensi anche per la fase più concettuale della sua arte?
L: Penso di sì, c’è del sacro anche qui. Spiegare perché non è facile – non si sa nemmeno se fosse cristiano – ma nel Primo manifesto spaziale l’artista ci rivela l’intenzione di «svincolare l’arte dalla materia, il senso dell’eterno dalla preoccupazione dell’immortale», chiarire che eternità non è immortalità e che l’infinito è oltre il finito, rappresentato dalla tela squarciata.
«I miei tagli […] sono soprattutto un’espressione filosofica, un atto di fede nell’infinito, un’affermazione di spiritualità. Quando io mi siedo davanti a uno dei miei tagli, a contemplarlo, provo all’improvviso una grande distensione dello spirito, mi sento un uomo liberato dalla schiavitù della materia, un uomo che appartiene alla vastità del presente e del futuro».
Il fatto di vedere l’infinito oltre il finito della materia lacerata mi sembra rimandi al sacro, e mi riporta alla ‘ferita’ di Cristo, che è raffigurata in un salterio del XIV secolo come un taglio netto che rivela la precisione con cui la spada è affondata nella carne.
L’infinito però sfugge ad ogni attesa e di fronte alle tele di Fontana resta sempre una domanda di senso, come ad ogni essere umano di fronte all’esistenza. Per alcuni la ferita è un passaggio a un orizzonte definito, per altri…
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