INTERVISTA A ROWAN WILLIAMS E ENZO BIANCHI
di Vittoria Prisciandaro
Da una parte, il primate (dimissionario) della Comunioneanglicana; dall’altra il priore di Bose. In mezzo, la nostra inviata. Che li ha interrogati sulla “gestione del potere”a vari livelli nella Chiesa: il ruolo di chi guida una comunità monastica, quello spinoso di chi cerca di tenere insieme una comunione di Chiese diverse e talvolta riottose. Con un pensiero anche al tema-tabù del primato petrino.
Metti una chiacchierata intorno a un tavolo. Come vecchi amici che si incontrano in un momento importante della loro vita. Rowan Williams, 104˚ arcivescovo di Canterbury, sta per lasciare lo scranno più alto e scomodo della Chiesa d’Inghilterra. È stato primate della Comunione anglicana per oltre dieci anni (fu eletto nel 2002). Prima di terminare il suo mandato, proprio mentre una apposita commissione anglicana sta per scegliere il suo successore, passa a salutare le sorelle e i fratelli della comunità monastica di Bose. Lo accompagna il figlio sedicenne, Philip. Sono rimaste a casa l’altra figlia e la moglie Jane, teologa, che gli è sempre stata vicina nelle decisioni difficili, compresa quella del marzo scorso, quando ha deciso di dare le dimissioni da arcivescovo e tornare all’insegnamento, antico mestiere che riprenderà dal gennaio 2013 in qualità di direttore del Magdalene College di Cambridge.
Nonostante i tanti impegni di fine mandato, dunque, Williams ha voluto fare una puntata in Piemonte, il 15 e il 16 settembre, per salutare, ancora in veste di primate, la comunità che tante volte lo ha accolto. «Ma ritornerò anche in futuro», chiosa. Nella pausa di tempo tra l’incontro riservato con monache e monaci, il sabato sera, e il saluto più ampio con un centinaio di amici della comunità della domenica, Rowan Williams e il priore di Bose, Enzo Bianchi, si confrontano faccia a faccia sui problemi che oggi attraversano le Chiese cristiane, influendo sul dibattito interno a ciascuna confessione e condizionando le relazioni ecumeniche: la gestione dell’autorità, i «temi sensibili», il primato petrino. Spesso, mentre uno parla, l’altro annuisce con il capo, aggiunge qualcosa, sorride in silenzio.
Si sta celebrando il 50˚ anniversario del Concilio Vaticano II, che ha segnato una svolta nelle relazioni ecumeniche e interreligiose. Quali vi sembrano i passi più significativi fatti in questi 50 anni dal punto di vista del dialogo e quali i passi indietro?
Williams: «Due cose mi sembrano importanti. La prima è che la Chiesa è stata autorizzata a pensare che possono esserci modelli, stili e filosofie diverse nel modo di esercitare l’autorità, nel modo di governare la Chiesa, che prima era pensato esclusivamente dall’alto verso il basso. Inoltre la Chiesa ha cominciato a prendere sul serio la questione dei non credenti e dei non cristiani, interrogandosi su quale spazio ci potesse essere per loro all’interno del pensiero cristiano. Il grande dono del Vaticano II è stato questo interrogarsi, un dono che viene dalla speranza e dalla fiducia, non dalla debolezza. Ebbene, mi sembra che con il passare del tempo aumentino le persone che considerano queste cose come minaccia e non come forza, e stanno facendo ritorno a un modello di autorità calato dall’alto e non ascoltano le domande che vengono dall’esterno».
Bianchi: «Il Concilio ha operato un grande mutamento nei cristiani comuni, che sono passati da una posizione di ignoranza degli altri cristiani, talvolta anche di disprezzo e di condanna, a una situazione in cui si ha la chiarezza di dover tutti andare verso un’unità in Cristo, che non richiede più un ritorno alla Chiesa cattolica. Mentre i protestanti e gli ortodossi avevano già vissuto un certo movimento ecumenico, noi, con il Concilio, siamo passati dalla negazione dell’ecumenismo alla possibilità dell’ecumenismo. Le speranze che si sono accese al momento del Concilio poco per volta sono andate frustrate: posso dirlo perché ho cominciato la mia vicenda con il post-Concilio e ci si attendeva che le Chiese arrivassero a una comunione più forte di quella che si è attuata in questi anni. La debolezza è che in nome di un’identità confessionale si ritorna a essere gli uni senza gli altri. Ogni Chiesa si sente autorizzata a fare il suo cammino non più sinfonicamente, e l’identità confessionale sembra essere più importante della qualità cristiana della vita e di ogni singola Chiesa».
Siete due leader, chiamati a «governare» una comunione di Chiese e una comunità monastica. Quali sono le virtù che un leader religioso deve avere? Quali i rischi da evitare? Cosa consigliereste ai vostri successori?
Bianchi: «La cosa più importante è l’ascolto, ascoltare tutti quelli che partecipano a una comunità, a una comunione. Forse è il lavoro più grande per chi ha un ministero di autorità nella Chiesa. Ascoltare, ascoltare, ascoltare. Certamente oggi il momento della decisione è diventato più faticoso e anche più fragile. Sovente nell’attuale situazione a volte si rischia una paralisi, non si ha il coraggio di una dinamica profetica verso il futuro. Però, se si ascolta, si fanno forse pochi passi ma con un orientamento. Il rischio grave è quello di un’autorità isolata, perché chi è isolato finisce con il non aderire alla realtà, non avere un orientamento, e sovente si contraddice anche a breve periodo sulle scelte che fa. Al mio successore io raccomanderò solo una cosa: ascoltare sempre ma essere audace nel prendere decisioni una volta che ha ascoltato tutti. Meglio una dinamica qualche volta con degli errori, che invece una paralisi, una stasi in cui non si va avanti e tutto si indebolisce, si corrompe e arriva solo la stanchezza, per la comunità e per la Chiesa».
Williams: «Il leader deve avere pazienza, non una pazienza passiva o senza audacia, ma una pazienza appassionata, per essere in grado di capire i cambiamenti e prendere la giusta decisione al momento giusto. Diceva il cardinale Newman che la decisione giusta al momento sbagliato può essere dannosa. La seconda cosa è l’importanza di essere sempre in contatto con la realtà locale della vita della Chiesa. Per me è stato importante visitare ogni domenica una parrocchia, durante la Messa domenicale. E viaggiare e vedere le Chiese della nostra comunione in altre parti del mondo: Congo, Zimbabwe sono stati pezzi di vita reale che ho incontrato e che mi hanno aiutato a comprendere. Il rischio dell’isolamento è forte, così come la consapevolezza che solo creando relazione puoi prendere decisioni sensate. Al mio successore consiglierei di ricordare sempre tutti coloro che pregano per lui, che nutrono il suo lavoro. E gli ricorderei che non si tratta di prendere decisioni per mostrare quanto tu sia forte, ma che la Chiesa lavora per il Regno e il Vangelo, a prescindere da ciò che dicono la stampa o i gruppi di pressione».
Quali sono i pregiudizi ecumenici più duri da combattere nelle nostre Chiese? E tra i vostri colleghi, vescovi e monaci?
Williams: «Il più grande pregiudizio è pensare che non abbiamo niente da imparare, che la verità ci è già stata data tutta. Un altro ostacolo è un certo modo di vivere le ferite storiche che ci hanno divisi come Chiese: Gesù nel Vangelo chiede se vogliamo essere sanati, ma spesso noi non vogliamo che le ferite del passato si chiudano, ci attacchiamo a queste ferite, le ricordiamo tra di noi e questo nutre la radice del pregiudizio e non guarisce»
Bianchi: «Credo che per un’autorità come quella di chi presiede una Chiesa o una comunità monastica e serve un ministero di comunione, sono necessarie due cose, come dice la nostra Regola: il discernimento e la misericordia. Ho sempre desiderato vedere nei nostri vescovi queste due capacità, perché dovrebbero essere questi i criteri per cui si viene eletti. Sento forte, in ogni Chiesa, il pregiudizio di essere erede esclusiva del Nuovo Testamento e della Chiesa di Gesù Cristo, e che le altre sono Chiese che hanno sbagliato e si sono staccate. Non riusciamo a pensare che c’è stata una separazione reciproca e alla fine vogliamo un ritorno degli altri alla nostra Chiesa così com’è. I nostri errori finiamo per usarli per definire una polemica o una divisione: quante volte sento dire per esempio che il Concilio ci ha protestantizzati! Questo significa ferire il corpo del Signore, è il pregiudizio grande che regna in molti cattolici e mi fa temere per la mia Chiesa, che in questo momento è assalita da molta paura e finisce per chiudersi in una cittadella e per assumere posizioni difensive che la paralizzano: verso gli ortodossi, i protestanti, gli anglicani, la modernità, la società, le altre religioni».
Williams: «Aggiungerei le implicazioni di tutto ciò: le nostre Chiese e comunità sono meno di ciò che potrebbero essere, perché solo dalla relazione con le altre Chiese raggiungiamo la pienezza della statura nella Grazia a cui siamo chiamati».
Nell’incontro con Benedetto XVI, il 12 marzo, nella basilica del Celio, durante la celebrazione dei vespri, l’arcivescovo Williams ha detto: «Noi tutti, pastori inclusi, necessitiamo di una disciplina che purifichi la nostra visione e ci ridoni un qualche senso della verità del nostro mondo, anche se ciò ci può produrre il tormento di sapere più chiaramente quanto la gente soffre e quanto poco possiamo fare per loro a partire dai nostri soli sforzi». A vostro parere, qual è la percezione della realtà del mondo nelle vostre Chiese? Su cosa lavorare? Che tipo di disciplina esercitare?
Bianchi: «Oggi siamo in un momento di distacco da parte di molte Chiese dalla realtà del mondo e dall’uomo comune, non comprendiamo il dolore del mondo, ma ce lo immaginiamo come vogliamo. Non lo discerniamo a partire dall’ascolto, da una reale prossimità: sovente ci chiediamo perché le Chiese fanno delle battaglie quando il mondo, con i suoi bisogni e le sue sofferenze, ci chiederebbe altre cose. Invece ci interessiamo di cose astratte: della povertà, della malattia, anziché dei poveri e dei malati, del peccato anziché dei peccatori. Tutto questo fa sì che oggi si sentano incoraggiate le posizioni difensive, le parti che non accettano la contemporaneità, che hanno nostalgia di una Chiesa del passato, che vorrebbero tornare a una Chiesa cattolica preconciliare che non c’è più nella realtà. Oggi si sentono rinvigorite e qualche volte sembrano aver ragione. Ancora in questi giorni si è detto che il Concilio è una grande grazia, ma ha portato anche alla crisi delle vocazioni sacerdotali e della pratica religiosa nelle Chiese. Ma la Grecia, che è ortodossa al 90 per cento e non ha avuto un Concilio, oggi si trova con gli stessi problemi della Chiesa cattolica riguardo al sacerdozio, alla vita religiosa e alla frequenza domenicale! Anzi, ancora più grave: alla liturgia eucaristica ortodossa domenicale si registra una frequenza che è la metà esatta di quella che abbiamo in Italia. Si imputa al Concilio quello che è in realtà un cammino della secolarizzazione, del mondo, un cammino in cui siamo immersi e dipende da noi anche determinarlo. Se abbiamo paura, se non accompagniamo questo cammino, non siamo dei cristiani come ci ha pensati e ci ha voluti il Signore»
Williams: «Penso che c’è una divisione nel modo in cui la Chiesa vede il mondo reale. Da una parte ci sono molti cristiani che a livello di base, nelle parrocchie, vanno al lavoro, hanno una famiglia, degli amici, sono “familiari” alle realtà del mondo; non insegneranno mai nella chiese, ma hanno le loro convinzioni e non si allontanano. Dall’altro, ci sono gli incontri ufficiali della Chiesa durante i quali pare che questa umanità reale scompaia, si parla di grandi temi in una sorta di astrazione dal reale. Una delle difficoltà è dunque mettere insieme la percezione dei fedeli, della base nella comunione ordinaria, e quella della gerarchia, dei sinodi, e anche delle assemblee dei laici. In aggiunta va detto che, sebbene la gerarchia debba salvaguardare l’integrità della Chiesa, spesso dal linguaggio che parla sembra non abbia mai incontrato una persona reale. In questo senso ritengo che occorra avere una forte disciplina spirituale. Prima di cercare una soluzione, di prendere una decisione, bisogna guardare, ascoltare, fare silenzio e ringraziare Dio. Io chiedo a Dio di aiutarmi a guardare la situazione con gli occhi compassionevoli con cui Lui guarda le persone e a ringraziarlo per l’umanità che ho di fronte. Questo è parte della disciplina».
Le vostre Chiese vivono con difficoltà alcuni temi «sensibili» che riguardano la sfera degli affetti e della vita. I matrimoni tra persone dello stesso sesso, il fine vita, l’ordinazione delle donne (che ha fatto passare alcuni anglicani nel nuovo Ordinariato cattolico)… Siamo di fronte a uno scisma inevitabile in futuro, conclamato o silenzioso che sia? O c’è uno stile che può aiutare ad affrontare questi nodi senza rompere l’unità?
Williams: «Penso che un arcivescovo più saggio avrebbe potuto avere più successo…», mormora con un sorriso timido. «Comunque noi anglicani cerchiamo di continuare a vivere con le nostre differenze. Con un forte grado di mutuo rispetto. “Rispetto” è la parola che abbiamo usato nel comunicato finale dopo l’ultimo incontro della Comunione, proprio in riferimento all’ordinazione episcopale delle donne. E penso che il rispetto sia la questione fondamentale. Il punto è che, come Chiese, abbiamo delle convinzioni profonde su alcune questioni, come il matrimonio, ma invece di comunicare il bello e il vero delle cose in cui confidiamo, spesso preferiamo partire dalla condanna, dal comunicare ciò che c’è di sbagliato in tutte le altre proposte. Questo atteggiamento non ci permette di mostrare il buono che c’è nella nostra proposta e di valorizzare il bene che ci può essere nell’altro».
Bianchi: «A volte ho l’impressione che la Chiesa sia sedotta dal ministero della condanna. Certo, in alcuni casi può essere una vocazione, come per Geremia, che però è stato anche capace di parole di speranza. La Chiesa dovrebbe essere ispirata dal Vangelo di Gesù, non da altre cose, e dovrebbe fare un ascolto sofferto degli uomini: perché anche in una persona che non cammina in conformità alle parole del Vangelo c’è qualcosa di positivo. Dovremmo avere lo sguardo di Gesù, che non vedeva solo il peccato, ma un uomo in cui c’era una dimensione di peccato ma anche tante dimensioni di bontà, come la ricerca dell’amore, il voler tentare di amare… È un terreno esplosivo quello che ci viene proposto dalla contemporaneità, siamo dentro a un cambiamento culturale e antropologico notevole e ci sono nuovi temi che fino a ieri non si ponevano neanche, tanto erano forti le certezze. Perciò bisogna anche ascoltarci tra Chiese, conoscere le esperienze dell’altro, vedere in un confronto se è possibile che ci siano perlomeno cammini ispirati al Vangelo che vanno assunti tutti insieme. La mia paura è che proprio su questi temi su cui le Chiese sono così sensibili, si finisca nel non vedere l’uomo nella sua realtà, con le sue debolezze. L’uomo è debole, fragile, peccatore, ma è in quella condizione che Dio vuole salvarlo. Noi vorremmo sempre dei sani all’interno della Chiesa, persone che non portano il peso del peccato. Ma Gesù ha detto che è venuto per i malati. Il peccato varia da uomo a uomo, da donna a donna, e non è che ci sono i santi e i peccatori, la variabile è la forma di peccato e di debolezza, non il peccato»
Nella basilica del Celio, durante la celebrazione dei vespri, Rowan Williams diceva che il vero pastore e guida nella Chiesa deve essere «libero di poter vedere le necessità degli altri come veramente sono. Ciò può causare tormento, perché questi bisogni possono essere tanto profondi e tragici». I poveri e la sofferenza che spazio hanno nella vostra vita? Quanto sono presenti?
Williams: «Non riesco a dedicarvi il tempo che vorrei, ma penso che questa esperienza sia molto importante per il mio ministero, in Gran Bretagna e nel mondo. A Canterbury, a Natale, visito i centri dei senzatetto, per ragazzi a rischio e l’hospice dove sono ricoverati i malati terminali. Anche all’estero ho sempre cercato di incontrare ciò che le Chiese locali fanno con i bambini e le donne vittime di violenza, in particolare nelle situazioni di conflitto. Non sono cose astratte ma persone. In Gran Bretagna ciò che ancora dà una certa credibilità al rapporto tra Stato e Chiesa è che i vescovi sono in grado di dire al Governo: “Abbiamo un’esperienza diretta delle sofferenze e della povertà, non parliamo per quanto leggiamo sui giornali, ma operiamo”. Naturalmente un vescovo non può fare molto, a differenza di un parroco, ma è importante anche il tempo passato ad ascoltare. Negli ultimi mesi a Londra ho passato un po’ di ore con le donne rifugiate, ho ascoltato le loro drammatiche esperienze, ho visto i progetti meravigliosi che le Chiese hanno per queste persone… Ho pregato con i moribondi e con i loro parenti… Senza queste esperienze di prima mano, nulla di quello che dico come vescovo avrebbe spessore, sarebbe vero».
Bianchi: «Ho imparato da chi è stato importante e decisivo come guida nella mia vita, il cardinale Michele Pellegrino, a non parlare di povertà e sofferenza in astratto. Quando incontriamo l’altro credo sia importante accorgerci del bisogno che lo abita e fare qualcosa per lui semplicemente perché è uomo, non perché è povero o sofferente. Vedere l’altro solo sotto il segno del bisogno rischia di non riconoscerlo nella sua pienezza, identità e unicità, che è molto di più. Una comunità monastica ha questa chance: incontra chiunque arriva alla porta. E per me, che mi muovo tanto, è questa l’arte in cui mi devo esercitare: capire davvero il bisogno delle persone che incontro in giro, accendere un incontro con la prossimità senza chiedermi cosa posso fare per loro. La parabola del samaritano insegna che tutti siamo capaci di bene. L’errore che hanno fatto i personaggi della parabola è stato non avvicinarsi. Il samaritano aveva delle possibilità, ma se fosse stato un pover’uomo che non aveva neanche l’asino per caricarlo? Bastava che stesse lì, tenendogli la mano fino a quando moriva e faceva il suo dovere, tanto quanto il samaritano che lo ha guarito. Non è tanto l’incontro con il bisogno, ma con l’uomo che ha dei bisogni. Altrimenti ci fidiamo troppo dell’organizzazione della carità, come sanno fare le Chiese, in cui manca spesso il sentire il vero dolore dell’altro. Un vescovo o un semplice cristiano in questo sono uguali: non è il ministero che li contraddistingue».
Nella Ut unum sint, papa Giovanni Paolo II chiedeva consiglio per esercitare il suo ministero in maniera da aiutare l’unità tra le Chiese. Oggi voi cosa consigliereste al successore di Pietro?
Bianchi: «Per varie ragioni quel brano mi ha coinvolto e mi coinvolge ancora a tal punto che in questi anni, a Bose, abbiamo cominciato a organizzare un simposio proprio sul ministero di Pietro, con teologi cattolici, ortodossi, anglicani, protestanti. Gli consiglierei di cominciare a realizzare il ministero di comunione verso tutte le Chiese: per ciò che riguarda le Chiese cattoliche orientali, eserciti il suo ministero come ereditato dal primo millennio; nei confronti delle Chiese della Riforma e dell’anglicanesimo, si mostri come servo dei servi del Signore che vuol radunare nella comunione tutti i cristiani. Se farà questo, giorno dopo giorno, credo che arriveremo alla possibilità di una sinfonia e di una accettazione del ministero petrino. Ma se questo non viene fatto quotidianamente, sin da ora, si avrà sempre paura di cosa potrà essere un Papa per le altre Chiese, che avranno timore ad accettare il ruolo del vescovo di Roma»
Williams: «Nel Vangelo Gesù dice a Pietro: “Quando ti sei convertito, rafforza la fede dei tuoi fratelli”. È questa la vocazione del ministero petrino, rafforzare la fede delle altre Chiese. Un’altra cosa: viviamo in un’età in cui le persone non riconoscono l’autorità in quanto data. L’autorità deve essere basata sulla fiducia, la relazione, e penso che uno dei compiti del successore di Pietro è chiedersi: come costruire la fiducia, superando il sospetto e la paura? Credo che il sistema della Curia romana, nonostante tutte le buone persone che vi lavorano, non è strutturalmente il più adatto a costruire la fiducia».
Vittoria Prisciandaro
Da Jesus n.11, novembre 2012
http://www.sanpaolo.org/jesus/1211je/intervista.htm
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