Come fronteggiare la crisi della democrazia
È opinione comune, ormai, che le democrazie occidentali vivono una stagione di crisi. Infatti diversi fattori, fra i quali il populismo con annesso leaderismo, spingono ad una disaffezione verso il sistema democratico che pare non riesca ad affrontare e a superare le criticità. Di questo tema discutiamo con Filippo Pizzolato.
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università degli Studi di Padova e di Dottrina dello Stato all’Università Cattolica di Milano, Pizzolato da anni è impegnato nella formazione socio-politica dei giovani con la scuola We care di Bergamo. La sua ultima pubblicazione, uscita per i tipi dell’editore Carocci nel 2019, è intitolata Sui sentieri costituzionali della democrazia.
– Nel suo recente volume Sui sentieri costituzionali della democrazia, lei sostiene che il regime democratico ha al suo interno le risorse necessarie per affrontare, e superare, l’attuale crisi che lo attanaglia. Quali sarebbero?
Intanto perché un pezzo rilevante della diffusa critica alla democrazia esprime una domanda non di minore, ma di maggiore partecipazione, contestando – a torto o a ragione – ai partiti e perfino all’assetto istituzionale di essere diventati elementi di strozzatura nella comunicazione tra cittadini e sfera pubblica, anziché luoghi dell’integrazione Stato-società.
Perfino la critica alla mediazione rappresentativa va, magari in modo confuso, in questa direzione, esprimendo il bisogno di un più intenso protagonismo dei cittadini e di una più diretta responsabilità politica.
E poi i dati ci parlano di un numero assai significativo di cittadini impegnato in attività di volontariato. Insomma, non mi pare che la domanda di partecipazione sia sparita; solo una parte minoritaria della critica della democrazia nutre nostalgie o pulsioni autoritarie. Si tratta di far comprendere che la Costituzione predispone canali in cui questa vitalità democratica potrebbe trovare posto ed essere valorizzata. Si tratta insomma di riscoprire e di riaprire i sentieri costituzionali della democrazia…
– Il populismo misto al leaderismo sembrano degli scogli insuperabili per le moderne democrazie. Esiste connessione fra la errata comprensione dei termini “popolo” e “leader”?
Una delle tesi principali del mio libro è proprio che dobbiamo smettere di pensare al “popolo” al singolare, come se cioè questo fosse titolare di una volontà semplificata che qualcuno – o un Parlamento rappresentativo, o appunto, meglio ancora, un leader – possa esprimere.
Il popolo che la Costituzione riconosce sovrano è una realtà pluralisticamente articolata, una trama intessuta di formazioni sociali (art. 2), di autonomie territoriali (art. 5), di minoranze linguistiche (art. 6), di confessioni religiose (artt. 7 e 8), eccetera. L’unità di un popolo siffatto non può essere semplicemente decisa dalla maggioranza – o dal leader – di turno, ma è il processo dialogico e cooperativo di parti differenti che sono chiamate a convivere, garantite reciprocamente dal patto costituzionale.
In questo senso, il populismo è la malattia senile della democrazia rappresentativa perché accentua, fino all’esito caricaturale, la pretesa, già propria della rappresentanza politica, di ridurre il popolo a una volontà.
Perfino la risposta della democrazia diretta, magari telematica, a cui qualcuno affida i sogni di rigenerazione della democrazia, persevera in questo limite perché, all’esito della consultazione referendaria, si pretenderebbe di avere l’unica, vera, immediata risposta popolare. L’ambizione autoritativa poi è perfino patetica nell’immaginare che la complessità del reale sia riducibile alla decisione di un capo illuminato.
– Alcuni costituenti, fra questi Giuseppe Dossetti, affermavano che un’idea sostanziale di democrazia dovesse rappresentare il futuro dell’istituto democratico. Di che si tratta?
L’idea di democrazia sostanziale – che è stata ben illustrata da una recente raccolta di scritti dossettiani curata da Andrea Michieli – non è un surrogato della democrazia totalitaria, magari di ispirazione comunista. È piuttosto l’ambizione di far penetrare la democrazia al di sotto dello strato superficiale delle istituzioni politiche (mediante il voto) e a farne “forma di vita”, secondo l’ideale di J. Dewey.
Non si è cittadini solo quando si vota per eleggere la classe politica, ma nelle scelte quotidiane di vita: in famiglia, nel modo di spostarsi, nel lavoro, nel tempo libero, nell’impegno sociale, ecc…
Non a caso, la Costituzione fonda la Repubblica democratica sul lavoro e cioè su un apporto feriale, quotidiano, alla costruzione della convivenza da parte dei cittadini, ciascuno con la propria capacità, e declina la partecipazione come politica, economica e sociale. Lo stesso principio di sussidiarietà, implicito nella Costituzione del 1948, esplicitato nel 2001, esaltato e poi inopinatamente abbandonato, dice che i cittadini, operando nella società (nel tempo del lavoro, della cura o perfino nel tempo libero) possono prendersi cura del bene comune o dell’interesse generale. Per questo, dico che la Costituzione è ospitale rispetto alla disponibilità dei cittadini di prendere parte. Anzi, entro certi limiti, la Costituzione esige questo impegno (art. 4, co. II).
– Perché nell’epoca della globalizzazione dovremmo prendere sul serio l’impegno per la democrazia diffusa e vissuta a livello locale?
Intanto perché, come anche dimostrano gli studi di S. Sassen, nella globalizzazione c’è un inatteso e significativo protagonismo delle città. Si sviluppa un concetto, ambivalente, di smart city. Si assiste a un protagonismo inedito dei sindaci che intessono perfino una rete internazionale di rapporti tra città.
E poi perché abbiamo a che fare con una partecipazione dei cittadini che ha mutato forma e…contenitore. Non abbiamo più – o sempre meno – la partecipazione tipica del Novecento, fortemente strutturata attorno ad architetture ramificate e solide, iscritte in mondi vitali forniti di ideologie che avevano coerenti terminali sindacali e partitici.
Oggi siamo al cospetto di una partecipazione vitale, ma molto destrutturata e fluida, diffidente, al limite dell’ostilità, verso i partiti. La disintermediazione non va quindi confusa con assenza tout court di partecipazione. Si pensi a un fenomeno nuovo ed emblematico: il volontariato individuale, sconnesso cioè dall’appartenenza a organizzazioni stabili. La mia tesi è che solo i Comuni, con la concretezza, immediatamente percepibile, del loro operato amministrativo possono ingaggiare e coinvolgere i cittadini attivi nella cura dei beni comuni. C’è una cittadinanza sociologica che è sempre meno interpretata dalla cittadinanza in senso legale. I Comuni possono aiutare a ricomporre questa patologica scissione.
– Crisi della democrazia significa, specie nel nostro Paese, crisi della politica e dei partiti. Da dove ripartire?
Dalla partecipazione dei cittadini, nella società, nel mercato, nelle città, nella cura feriale e perfino marginale dei beni comuni. Incoraggiando, cucendo, federando questo reticolo di impegni fitti ma frammentari. Non per portare a sintesi, ma per promuovere, capacitare, completare. E basta con assurde attese messianiche. La vera utopia non è la partecipazione, ma l’illusione che, da qualche parte, si nasconda il leader buono che, da solo, si caricherà sulle spalle la sgangherata democrazia italiana.
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