Il Purgatorio di Dante – introduzione generale
Nel Purgatorio cambia il registro. È il regno del non ancora, segnato dall’attesa e dalla speranza. Quindi dalla dimensione del tempo, assente nelle altre due cantiche. Gli abitanti di questa cantica sono proiettati verso qualcosa di là da venire, ed il loro atteggiamento verso quel che è stata la vita terrena è un atteggiamento più distaccato, che magari rischia di non scaldare gli animi dei lettori come accadeva quando si percorrevano le vie infernali. L’idea della purificazione non è oggi un’idea diffusa. Che vuol dire purificarsi? È capace, la nostra quotidianità, di essere vissuta quale percorso di purificazione? La quotidianità, con le sue fatiche, i suoi fastidi, le sue preoccupazioni, sembra somigliare molto più al Purgatorio dantesco che non all’Inferno o al Paradiso, regni senza tempo, senza speranza, senza prospettiva che non sia rispettivamente il fine pena mai o, che è più bello, il fine beatitudine mai. Nel Purgatorio si lotta, si prega, si fatica, e di tutto questo vi è un senso. Non è insensato il faticare, nel Purgatorio. Ma qual è il senso, visto che, a differenza che nell’Inferno, qui soffrire ha un senso?
Il primo canto
I due pellegrini sono usciti a riveder le stelle, abbandonando il mar sì crudele dell’Inferno. In questo canto introduttivo del Purgatorio Dante prepara il lettore al grande tema della liberazione – progressiva, faticosa, ma piena di speranza – dal peccato. Le fiere del I canto dell’Inferno sono ormai un ricordo. Il paesaggio è costellato da simboli di pace e serenità. Il cielo si ripresenta agli occhi di Dante. E come nel primo dell’Inferno, compare improvvisamente una figura quasi sacrale, anch’essa proveniente dal mondo pagano: un veglio solo, Catone. Che, con piglio autoritario, così apostrofa Dante e Virgilio:
Il testo (Purgatorio I, 40-72)
“Chi siete voi che contro al cieco fiume “Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, Son le leggi d’abisso così rotte? Lo duca mio allor mi dié di piglio, Poscia rispuose lui: “Da me non venni: Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi |
Questi non vide mai l’ultima sera; Sì com’io dissi, fui mandato ad esso Mostrata ho lui tutta la gente ria; Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti; Or ti piaccia gradir la sua venuta: |
Catone, “cristiano anonimo”
Che ci fate voi qui? La presenza di Dante e Virgilio, oggi si direbbe, appare “abusiva” a Catone, in virtù delle leggi dell’al di là che non consentono ad alcuno di uscire dalla zona infernale (Virgilio) e, men che mai, di transitarvi da vivi (Dante). Sulla spiaggia del monte su cui i due pellegrini dovranno salire per raggiungere il Paradiso terrestre, Virgilio, che ha raccomandato ansiosamente (con parole e con mani e con cenni) a Dante di assumere il giusto atteggiamento di rispetto, risponde a Catone di Utica, figura storica di repubblicano nella Roma del I secolo a.C., celebre per il suo gesto suicida di protesta contro la dittatura cesariana.
Catone è un campione dell’obiezione di coscienza, e Dante autore ha voluto eccezionalmente (come eccezionalmente pone pezzi di gerarchia ecclesiastica all’Inferno) collocare un pagano quale custode del Purgatorio. I santi pagani: Virgilio e Catone. La chiesa pagana di Dante si arricchisce di un nuovo personaggio. Oggi si parla di “cristiani anonimi” a proposito delle figure che, senza averne coscienza e intenzionalità, si comportano da cristiani. Elemento di riflessione da non trascurare quando si parla di rapporto tra mondo (presunto) religioso e mondo laico (come se la categoria del religioso vi si opponesse), soprattutto quando tra i due mondi sembrano ergersi steccati impropri.
Provvidenza, dolore, libertà
I lettori ricorderanno la risposta sdegnata che Virgilio aveva dato al vecchio Caronte: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare. Di tutt’altro tenore la risposta data al veglio Catone, che pur nella sostanza richiama quell’altra. Tutto quel che avviene è voluto dal cielo: Da me non venni: donna scese dal ciel. E lo scopo è la libertà.
Il cielo ha dunque predisposto per Dante, per la follia di Dante, un cammino di libertà, e la libertà passa attraverso la conoscenza del dolore umano: non li era altra via che questa. La libertà passa attraverso un viaggio interiore, alla ricerca dei propri mostri. L’Inferno è stato questo. Ma la liberazione da se stessi è impresa ancora più faticosa, e le forze umane non bastano. Virgilio è la forza umana di Dante, perché è l’allegoria della sua ragione. Ma la ragione necessita di “virtù che scende dall’alto”. Operante fin dall’Inferno e pienamente attiva a partire dal trentesimo canto del Purgatorio: Beatrice.
Una faticosa ascesa, verso la libertà interiore
Virgilio chiede a Catone, che è il custode del Purgatorio, di consentire a Dante l’ascesa del monte. E Catone acconsente invitando Virgilio a far compiere a Dante un rito di purificazione: dovrà lavarsi il viso e cingersi di un giunco. È vera liturgia che si svolge all’alba, in uno scenario marino di silenzio e solitudine che pur intessuto di simboli non perde la sua concreta bellezza. Il giunco raccolto ricresce miracolosamente, simbolo di ciò che è capace di piegarsi e che mai si consuma, l’umiltà necessaria a chi si accinge a ripercorrere le fragilità e le contraddizioni del proprio Io ma questa volta salendo piuttosto che scendendo.
La salita verso il paradiso terrestre è la conquista progressiva di una libertà interiore che è il presupposto di una vita felice. Parla ancora questa suggestione? Che ruolo hanno tutte le dipendenze che l’uomo è capace di costruirsi nel percorso verso la libertà? E poi, è davvero possibile pensare ad una libertà radicale? Il radicalismo politico di Catone, figura di quello dantesco, non va trascurato. Egli rifiuta la vita anteponendole la libertà. La storia umana è disseminata di figure che, pur di poter professare liberamente il proprio credo – religioso, filosofico, politico – hanno scelto, come l’evangelico chicco di grano, di non vivere.
Emblemi di una vita con la schiena dritta, che non può lasciare indifferenti.
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