Dante parla ancora – La lotta politica: quando gli avversari sono uomini come noi (Inferno X)

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Dante e Virgilio sono arrivati nella Città di Dite, che prelude al sesto cerchio. Lì abitano gli eretici e gli epicurei, in uno sterminato cimitero di tombe infuocate e aperte. Più morti dei morti. Dante chiede a Virgilio di poter vedere coloro che stanno nelle tombe, ma mentre dialoga col maestro irrompe una voce.

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».

Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai».

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto. 

E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».    

Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».

 

 

[…]

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa:

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte».

e sé continuando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?». 

Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.

Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».

 

 

 

 

562px-Inferno_Canto_10_verses_40-42La voce che irrompe è quella di un personaggio noto alla storia e soprattutto alle cronache fiorentine del tempo: Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina quando ancora Dante non era nato. I suoi avversari politici, i guelfi, erano invece i progenitori di Dante. Bisogna per un attimo mettersi nei panni del Dante poeta e autore della Commedia, mentre scrive la Commedia. È il 1304 grosso modo, anche se nella finzione letteraria sarebbe il 1300), e Dante è stato cacciato da Firenze e condannato a morte dai suoi avversari politici, che non sono i ghibellini ma la parte nera dei guelfi (i guelfi clericali e integralisti per intenderci). Ha preso le distanze dalla politica. Lavora con la memoria, quella personale e quella storica.

Conosce bene l’odio tra le fazioni. Lo ha sperimentato sulla propria pelle. Conosce bene un certo modo di vivere la politica, per il quale l’avversario è il nemico da abbattere. Non esiste ancora il “politicamente corretto”. Esiste il politicamente feroce. Conosce cosa significa l’accecamento ideologico che non fa più vedere alcuna umanità nell’avversario politico perché quel che prevale è la sete di potere. Sa da dove viene il male che lo ha colpito, ne conosce l’origine storica, che risale alle lotte per le investiture e alla formazione delle libertà comunali di almeno un secolo prima.

Come si è ridotta la politica? Come si è ridotto il confronto civico? Queste sono le domande dell’esule. Che vuole entrare in dialogo con queste origini, vuole risalire ai decenni precedenti, alle cause di questo scempio, per comprendere, per valutare, forse per perdonare. Ed ecco uno che non conobbe mai, perché morì un anno prima della sua nascita. Farinata è un irriducibile. Si erge dalla tomba a mezzo busto, come una scultura imponente che si fa beffe dell’inferno, e apostrofa Dante con cipiglio altero: o toscano che te ne vai da vivo per l’inferno con questo tuo parlare elegante (“onesto”), fermati qui. In due terzine Farinata pone il tema: abbiamo la stessa patria te ed io, e a questa patria io sono stato nocivo (“molesto”).

Dante si accosta con timore a Virgilio, ma il maestro inesorabilmente non solo lo riconduce alle sue responsabilità, ma gli raccomanda: bada alle tue parole. Non è un personaggio qualsiasi quel che hai davanti. È un capo politico, è uno che ha scritto pagine di storia col sangue. La sua presenza all’inferno non ha ovviamente motivazioni politiche ma teologiche. Infatti sta nel girone degli eretici e degli epicurei. Ma il Farinata che interessa a Dante è un altro. Per questo ubbidisce al maestro e si sottopone all’interrogatorio del personaggio che giustamente gli chiede conto dei suoi “maggior”. Chi sono i tuoi genitori e progenitori? Erano avversari. I suoi avversari. Le ciglia un po’ in su per indicare una forma di sdegno, che si concretizza nel ricordo sprezzante delle vittorie ottenute dai ghibellini sui guelfi: li ho dispersi due volte. Se furono cacciati – rintuzza Dante a cui il cipiglio polemico non manca mai – tornarono da ogni parte tutte e due le volte, ma i tuoi non seppero farlo. È polemica. Fin qui i due duellano.

Ma al verso 50 si erge dalla stessa tomba il padre di Guido Cavalcanti (parte non presente nel brano scelto). È una pausa affettiva. Chiede del figlio e capisce che forse è morto. Cade disperato per il dolore.

È un intermezzo che introduce dentro la polemica politica una nota affettiva, privata, di comune umanità. L’autore ha così preparato la seconda parte del dialogo con Farinata. Che è già fatto riapparire come “magnanimo”, dall’animo grande, che però di quei fatti tragici non ha più una memoria orgogliosa e sprezzante, ma tormentata: “ciò mi tormenta più che questo letto”. La morte rivela la comune umanità degli avversari politici. Farinata non ha più voglia di esultare, sa bene che il suo interlocutore sarà (ma già lo è, nella dimensione presente dell’autore) un’altra vittima di una politica esacerbata: tu saprai quanto pesa l’arte del tornare in patria. Gli predice, nella finzione narrativa, l’esilio che è già carne e sangue della vita di Dante.

Farinata medita sulla politica: vede i suoi discendenti – e contemporanei di Dante – ancora maltrattati dai guelfi al potere e si chiede perché. Perché la vendetta? Perché quel popolo è così crudele verso i miei? Per vendetta, risponde Dante. Per vendetta. Ma Farinata ha ancora la possibilità di dire che egli amava la sua patria, e non volle che fosse distrutta dai pisani suoi alleati. La patria è la patria, e resta tale chiunque sia al potere. Guelfi o ghibellini si è sempre fiorentini. Questo sta celebrando Dante nella figura di Farinata: la nobiltà d’animo di un capo politico che è stato capace di tenere la propria patria al di qua di qualsiasi logica vendicativa. Che non ha identificato la patria con la “parte”. E che oggi, nell’oggi del testo, è capace di tornare sui suoi passi e meditare sulla degenerazione subita dalla vita politica del suo tempo.

Ma è del tutto evidente che la meditazione di Farinata non è altro che la meditazione del poeta, che non riconosce più alla lotta politica la lealtà, il rispetto umano, la dignità che le sarebbero necessari per poter contribuire al progresso di tutti.

Che Dante stia parlando ancora oggi può anche essere del tutto omesso.

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