Dante parla ancora – Manfredi: se l’uomo presume di saperne più di Dio (Purgatorio III)

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Il terzo canto del Purgatorio: l’Antipurgatorio

Questo terzo del Purgatorio è un canto apparentemente inadatto al ”parlare ancora” che questa rubrica va cercando nella Commedia dantesca.

Anche Dante e Virgilio vanno cercando la strada per scalare agevolmente la montagna del Purgatorio. E transitano da una zona, chiamata Antipurgatorio, popolata da anime che hanno ottenuto in extremis il perdono di Dio.

Tra queste gli scomunicati. Non è forse un tema attualissimo, perché la nostra società ha pensieri alquanto lontani dalle prassi ecclesiali di scomunica che peraltro sono rarissime.

Però il modo in cui Dante rievoca, probabilmente con qualche forzatura storica, la figura del figlio naturale di Federico II, Manfredi, consente di riflettere su qualche tema che riguarda anche il nostro oggi.

Il testo: vv. 103-145

 

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’ io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’ io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’ É le trasmutò a lume spento.

Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s’avanza».

La storia di Manfredi e la sua trasfigurazione

Oggi i Guelfi e i Ghibellini non esistono più, se non come metafore di integralismi religiosi o di laicismi anticlericali.

Manfredi, che si autopresenta come nepote di Costanza imperadrice madre di Federico II, ereditava l’avversione ghibellina verso il potere temporale della chiesa, cioè contro la pretesa di fare lotta politica servendosi del sacro.

La storia narra che Manfredi, alla morte del padre Federico II, prima che Dante nascesse, aveva preso il potere del Regno delle Due Sicilie e per questo fu scomunicato dal papa Innocenzo IV, reggente del legittimo erede Corradino di Svevia. I papi successivi, con l’aiuto del re di Francia Carlo d’Angiò, sconfissero Manfredi a Benevento quando Dante era nato da appena un anno.

Adesso lo scomunicato Manfredi, forse con sorpresa dei contemporanei di Dante, compare in Purgatorio, biondo, bello e di nobile aspetto con la ferita mortale in viso. 

Dante personaggio ovviamente non può riconoscerlo. È una figura liberata dalla ferocia della storia.  Sorridente e gentile, pensa alla figlia, e prega Dante di riferirle che egli non si trova all’Inferno, come forse si pensa. Io mi consegnai piangendo a colui che perdona volentieri. Orribili furono i miei peccati, ma la bontà infinita ha braccia così grandi che accoglie chi si rivolge a lui. Si legge qui l’autoconsegna di Manfredi al volto perdonante di Dio nella consapevolezza piena della propria inadeguatezza. Notevole: piangendo.

Giudizi dell’uomo e giudizi di Dio

Insomma Manfredi, morto scomunicato, è accolto da Dio. Dante evidentemente è entrato in contatto con la vicenda di questo regnante medievale e ne ha tratto occasione per riflettere sulla relatività dei giudizi umani.

Ma non finisce qui la narrazione di Manfredi. Le sue ossa, che erano state pietosamente seppellite dai francesi, furono vergognosamente disseppellite, per ordine del papa, dal vescovo di Cosenza che le fece gettare di fuor dal regno, dove or le bagna la pioggia e move il vento.

 Il diritto umano più elementare al seppellimento – si pensi all’Antigone sofoclea che disobbedì alla legge di Creonte per seppellire il fratello Polinice – viene misconosciuto dall’accanimento politico delle gerarchie ecclesiastiche.

Se ‘l pastor di Cosenza avesse in Dio ben letta questa faccia….cioè il volto accogliente di Dio. Invece Manfredi ottiene dalla chiesa maladizion, cioè separazione dall’etterno amore. Paradosso di una chiesa che separa da Dio.

Ideologie e misericordia

Tuttavia il teologo morale Alighieri non benedice l’anticlericalismo di Manfredi. Infatti la sua permanenza in quella zona dell’Antipurgatorio durerà più del dovuto per la sua disubbidienza alla chiesa, ma sarà comunque un tempo che le preghiere dei cari possono ridurre: qui per quei di là molto s’avanza. Mirabile equilibrismo, ancora una volta, tra radicalismo evangelico e lealtà istituzionale.

Dunque l’ultima parola non è mai degli uomini e la verità del cuore umano resta un mistero. Manfredi, come Dante, ha vissuto e pagato per l’odio politico, che nel Medioevo non è mai separato dall’odio religioso.

Nel palcoscenico della storia egli è stato scomunicato, ucciso e sconsacrato dagli uomini della chiesa. Perché ghibellino. Ma Dante vuole rivisitare la figura di Manfredi sia perché Manfredi è figura dello stesso poeta, condannato ed esiliato (e “maledetto” come Gesù), sia perché il lettore rifletta sulle assolutizzazioni di cui è capace l’animo umano quando è accecato dall’ideologia.

Sì, è pura lotta antiideologica e antiidolatrica quella che si percepisce in questo canto. E come sempre il monito dantesco è per chi crede come per chi non crede o non sa se crede.

Un celebre passo biblico recita: «Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20), ed è un passo che contiene una sapienza esistenziale inestimabile perché è un invito all’umiltà e alla memoria del limite di ogni giudizio umano.

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