Questa rubrica quindicinale vuole essere un contributo all’attualità della Commedia dantesca. Le attualizzazioni di testi temporalmente distanti presentano sempre il rischio della forzatura. Cercherò di tenermene lontano praticando un’accezione di “attualizzazione” smarcata dall’attualità spicciola e contingente e orientata a cogliere la dimensione umana e culturale che permane a sette secoli di distanza dai testi che trattiamo. Quella dimensione che poi può anche dare origine a questioni che attraversano la contemporaneità. È essenzialmente un contributo alla presenza formativa della Commedia nelle nostre scuole che vedo alquanto in sofferenza, forse per difetto di passione e competenza, e non solo sul fronte degli insegnanti più giovani purtroppo. Solo chi ama Dante può risentirlo parlare. E farlo parlare in classe.
Nel I canto dell’Inferno il narratore si autopresenta come smarrito in una selva oscura. Disorientato. Incapace di trovare la via di uscita. All’apparire di un colle illuminato dal sole, egli si rallegra per la via ritrovata e si incammina risalendone le pendici. Ma tre fiere gli sbarrano il cammino facendolo ripiombare a valle. É a questo punto che compare la figura del poeta latino Virgilio, che Dante riconosce come suo maestro e modello e al quale chiede aiuto. Il poeta, dopo essersi presentato e aver spiegato la natura feroce soprattutto della terza fiera, la lupa, che tuttavia è destinata nel tempo ad essere sconfitta, gli dice che per ottenere la salvezza deve compiere un altro percorso, attraverso i regni ultraterreni dell’Inferno e del Purgatorio. Dante si fida e lo segue.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista;tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace[…]
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi:
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».«A te convien tenere altro viaggio»,
rispuose poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio:ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Siamo nel cuore del I canto della Commedia. Dante, oggi si direbbe, è in una situazione di stallo esistenziale. La via verso il colle luminoso (la via verso la salvezza, verso il bene, verso Dio) gli è preclusa da tre animali feroci. Siamo con tutta evidenza davanti a simboli allegorici. Cosa rappresentano queste tre fiere? Rinunciamo a sciogliere sbrigativamente le allegorie, che corrono sempre il rischio di creare concettualizzazioni astratte e di far perdere il dinamismo concreto delle azioni e dei fatti. Lasciamo parlare il testo.
La prima fiera è una lonza. Pochi tratti: la leggerezza, la rapidità (presta molto), ma anche la pervicacia. Gli si para davanti e non lo fa procedere. Poi il leone che incede a testa alta e con rabbiosa fame. Anche il leone punta frontalmente su Dante. Anche l’ultima fiera, la lupa, caratterizzata dalla magrezza e dall’inquietudine (sanza pace), lo attacca frontalmente (venendomi ‘ncontro). Si tratta di allegorie, con tutta evidenza. Dante parla di animali per parlare d’altro. Ma piuttosto che chiedersi subito di cosa parla, cioè cosa rappresentino queste figure, conviene prima osservare come sono caratterizzate e come si comportano nel testo.
La lonza: leggerezza e rapidità. Con leggerezza e rapidità la lonza viene incontro all’uomo. Ciò implica una sorta di “facilità” con cui l’animo umano aderisce ad esperienze che possono sedurlo. In effetti alcune esperienze di vita presentano caratteri di leggerezza e rapidità così irresistibili da compromettere ogni progetto umano, qui individuato come cammino. La lonza, in altre parole, sembra configurarsi come qualcosa che si insinua con facilità ad ostacolare il normale corso della vita umana. È il primo degli ostacoli, il più rapido, quasi ad individuare la forma più lieve – e forse per questo meno prevedibile – di compromissione con la propria fragilità interiore.
Il leone: testa alta e fame rabbiosa. Quando l’uomo perde la propria dimensione naturale, impasto indissolubile di forza e debolezza, può tentare di vivere “con la testa alta”. Significa perdere il contatto con la terra, con ciò che lo richiama alla propria condizione naturale. Vengono in mente curiosamente due approcci all’esistenza umana: quello di Leopardi, soprattutto se si guarda alla “Ginestra” (vv.86-90): uom di povero stato e membra inferme/che sia dell’alma generoso ed alto,/non chiama sé né stima/ricco d’or né gagliardo,/e di splendida vita o di valente/persona infra la gente/non fa risibil mostra. E quello di Montale, nel suo “Non chiederci la parola” (vv.5-8): Ah l’uomo che se ne va sicuro,/ agli altri ed a se stesso amico, /e l’ombra sua non cura che la canicola/stampa sopra uno scalcinato muro! La sapienza laica (rappresentata dai due poeti appena citati) e la sapienza giudaico-cristiana (Dante) qui si danno la mano nel raffigurare l’uomo che vive al di sopra della propria condizione e che così vivendo è tutt’altro che felice, come sembra dire la fame rabbiosa del leone. Non una fame capace di soddisfare bisogni naturali, ma una fame rabbiosa, che vuole accaparrare. Così si mostra il leone, che per questo fa tremare l’aria.
La lupa: magrezza senza pace. Della lupa parla più Virgilio che Dante. È deperita, consumata dalla fame. Ma non perché non abbia di che mangiare, bensì perché non empie la bramosa voglia,/e dopo ’l pasto ha più fame che pria. Non riuscire a saziarsi. Non riuscire a dare risposta ai propri desideri, ma perpetuarli incessantemente. E diventare cattivi per questo (malvagia e ria è la sua natura). La radice della malvagità sembra annidarsi nell’inesauribile desiderare, che non guarda in faccia nessuno e crea sofferenza (molte genti fe’ già viver grame). Giustamente Dante sente tremar le vene i polsi, perché avverte acutamente, fisicamente, in sé la coercizione di questo incessante desiderare che non fa mai sorridere alla vita. Che probabilmente cerca la felicità senza praticare – come era solito sostenere Tiziano Terzani – la contentezza. La lupa non è mai contenta e la sua magrezza dipende proprio da questa insaziabilità. È notevole che gli animali a cui si accoppia sono molti. Come dire che la brama incessante può essere considerata la madre di tutte le fragilità dell’esistenza umana.
Ecco le tre fiere, colte nel loro dinamismo testuale, al di qua delle sbrigative allegorie scolastiche che le riconducono a vizi ben identificabili sulla scorta tradizione critica: lussuria, superbia e avidità. Ma la costruzione concettuale del vizio ha questo… vizio, quello di far perdere il dinamismo esistenziale dei simboli. È più importante, anche in un’ottica formativa, far percepire come operano questi animali, lo si è detto, prima di definire cosa rappresentano. Mette efficacemente in evidenza questa problematicità del “dare un nome” la canzone Ah, che sarà, cover italiana di Fossati e Mannoia dal cantautore brasiliano Chico Buarque, il cui testo è giocato proprio sull’elencazione di azioni che l’autore né sa né vuole rubricare.
Allora anche con questa pericope dantesca si può adottare lo stesso gioco. Parafrasando la celebre Cosa sarà di Dalla e De Gregori, ci si potrebbe chiedere: cosa sarà che ti viene incontro con leggerezza e rapidità e ti sconvolge il cammino della vita? Cosa sarà che ti fa camminare a testa alta e dimenticare da dove vieni e a cosa sei destinato? Cosa sarà che ti rende sempre inquieto e non ti fa sorridere di quello che la vita ti dona? La scuola non raramente preferisce le formulette preconfezionate ai processi della mente. Ma soltanto allenando la mente degli allievi a procedere induttivamente a partire dal testo si realizza la possibilità che il testo divenga anche oggi eloquente non solo per i ragazzi, ma per tutti noi. E per questo ci vogliono nuovi Virgilio. Ci sarà tempo in seconda battuta per parlare, forse, anche di consumismo, di edonismo, di narcisismo. Gli –ismi possono aspettare. Prima la forza delle cose e dei testi.
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