Purgatorio: i canti XXI e XXII e la riflessione sulla poesia.
I canti 21 e 22 del Purgatorio sono inseparabili. A Dante e Virgilio si aggiunge un nuovo viandante, il poeta latino Stazio vissuto nel primo secolo dopo Cristo, attorno al quale Dante ricama tutti i motivi che lo hanno portato ad insignire Virgilio del ruolo di guida morale e ad individuare nella poesia il linguaggio che, ancor più della filosofia, è capace di celebrare l’Eterno ed il Bene. La cornice è quella degli avari e prodighi, ma il motivo della prodigalità di Stazio non è centrale. Centrali sono la devozione che Stazio nutre per Virgilio e, per tramite di questa, la comunione di spiriti poetici, presenti e assenti nel testo, capace di parlare ancora oggi.
Il testo: XXI vv. 94-102;124-136 e XXII vv. 64-73; 94-114
«Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; de l’Eneïda dico, la qual mamma E per esser vivuto di là quando «Questi che guida in alto li occhi miei, Se cagion altra al mio rider credesti, Già s’inchinava ad abbracciar li piedi Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate trattando l’ombre come cosa salda». […] |
Ed elli a lui: «Tu prima m’invïasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m’alluminasti. Facesti come quei che va di notte, quando dicesti: ‘Secol si rinova; Per te poeta fui, per te cristiano». […]«Tu dunque, che levato hai il coperchio dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico, «Costoro e Persio e io e altri assai», nel primo cinghio del carcere cieco; Euripide v’è nosco e Antifonte, Quivi si veggion de le genti tue Védeisi quella che mostrò Langia; |
Stazio e la devozione a Virgilio
Stazio non riconosce subito il suo venerato Virgilio. Nella prima pericope scelta, egli dice ai due viandanti che a nutrire il suo percorso spirituale è stato lo studio amorevole dell’Eneide e che pur di poter conoscere di persona il grande modello sarebbe stato disposto a prolungare la sua attesa di entrare nel Purgatorio.
Dante incorpora nella dinamica della salvezza cristiana figure pagane. Alighieri è stato capace di costruire l’idea che il poeta pagano Stazio possa attribuire addirittura il merito della sua salvezza cristiana ad un poema pagano, l’Eneide.
Virgilio ancor più santo pagano, dunque.
La scena successiva, qui omessa, è davvero particolare. Stazio parlava di Virgilio a Virgilio senza saperlo. Dante muore dalla voglia di rivelare a Stazio che il suo “mito” è proprio quello con cui sta parlando.
Virgilio in un primo momento gli ordina di tacere, ma poi non resiste al desiderio del discepolo e gli consente di rivelare la sua identità: questi che hai davanti e che mi conduce verso l’alto è proprio quel Virgilio da cui tu hai tratto le tue capacità poetiche. E se mi hai visto sorridere, non era se non per questo.
A questo punto lo stupore e la felicità di Stazio somigliano a quelle viste in Dante nel primo canto dell’Inferno. Si inchina per abbracciargli i piedi ma Virgilio si schernisce. Da questo momento inizia un dialogo pieno di affetto reciproco che unisce i due canti.
Il “cristiano” Stazio
Quali i temi di questo dialogo?
Stazio attribuisce a Virgilio il merito di avergli trasmesso la poesia e la fede: prima verso Parnaso e poi appresso Dio. Come uno che di notte porta una lampada che non giova a se stesso ma solo a chi segue: “dopo sé fa le persone dotte”. Bellezza del riconoscimento di Virgilio come figura salvifica per gli altri ma non per sé.
La quarta bucolica virgiliana accennò ad un rinnovamento generale del mondo e degli uomini, e il medioevo amò vederne profezia messianica. Il paganesimo come cristianesimo in nuce. Stazio è qui rappresentato come avviato alla fede cristiana da un testo pagano.
Eppure, nella rilettura (filologicamente infondata ma poeticamente suggestiva) dantesca, Stazio può conoscere i predicatori cristiani e addirittura farsi battezzare, pur rimanendo un “chiuso cristian”, un cristiano nascosto per paura delle persecuzioni.
In Stazio paganesimo e cristianesimo, poesia e fede trovano la sintesi perfetta che è già in Virgilio e inevitabilmente in Dante stesso, che nella Commedia ha realizzato l’enciclopedia culturale più prodigiosa che si conosca.
Soltanto un secolo dopo di lui, con giusta prospettiva storica, mondo classico e mondo medievale si separeranno. Ma per Dante la Grazia piove in modo non dissimile su tutta la sapienza poetica del passato e del (suo) presente.
La comunione dei poeti
Eppure la dottrina cristiana del battesimo non può accogliere tutta questa sapienza nello spazio della salvezza.
Da qui la domanda di Stazio contenuta nella quarta pericope scelta: tu che mi ha avviato verso la salvezza dimmi dove sono Terenzio, Cecilio Stazio, Plauto, Varrone.
Il pensiero è alla comunione degli spiriti. E qui abbiamo la bella celebrazione della poesia, sia pur solo attraverso la logica dell’elenco dei poeti e dei personaggi poetici che vivono la tristezza del Limbo: da Persio a Euripide ad Antigone il buon maestro passa in rassegna pagine e pagine di letteratura.
Meglio Alighieri non poteva celebrare la sua vita di amante della poesia, per la quale intraprese la scrittura della Commedia lasciando per strada gli studi filosofici del Convivio.
La poesia vera sapienza
Ma che cosa ci lascia tutto questo? E come i nostri giovani potrebbero trarre beneficio da questo movimento del testo?
La poesia oggi è di nicchia. Che abbia la capacità di sondare le profondità dell’umano attraverso l’intuizione del linguaggio non è più di dominio comune, e certamente non è un vantaggio della nostra epoca.
Dante fa poesia cristiana e celebra due poeti pagani. Al di là delle cristianizzazioni medievali qui c’è in gioco una verità più profonda, ed è che l’essenza dell’uomo non ha confini dottrinali.
Non solo, ma la comunione dei santi di matrice cristiana sembra evocata qui come comunione dei poeti di ogni tempo, che hanno saputo fare assurgere a bellezza tutte le pieghe dell’animo umano.
I due poeti a un certo punto tacciono, ma poi riprendono a parlare, e Dante è capace di dipingere questo bellissimo quadretto con cui mi piace concludere:
Elli givan dinanzi, e io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni,
ch’a poetar mi davano intelletto
(c.XXII, 127-129).
Essi procedevano, ed io soletto stavo dietro di loro, e ascoltavo i loro discorsi, che mi ammaestravano ad essere poeta. Il nano sulle spalle dei giganti.
Che sta dietro ai maestri, con bella immagine evangelica. Trionfo dell’umiltà, della gratitudine, del riconoscimento per chi, vissuto anche molti secoli prima, ha nutrito il nostro spirito permettendoci di diventare quelli che siamo. Se siamo qualcosa.
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