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Antigone e Orlando: il decreto sicurezza e la disobbedienza civile

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Qualche chiarimento.

Contestare le leggi dello Stato, e farlo in nome di una superiore giustizia che coinvolge la propria coscienza, è sempre stato un gesto affascinante.

Che, per essere capito, richiede però alcuni chiarimenti sui rapporti fra la sfera morale e quella giuridico-politica.

Intanto va detto che la sfera giuridica è essa stessa morale. Esiste, cioè, un dovere morale di obbedire alle leggi, anche a quelle che non si condividono.

Così, almeno, prevedono le regole della collettività e del gioco democratico, in cui non sempre una legge esprime la sensibilità di tutti i membri di una comunità, ma soltanto della maggioranza che ha prevalso.

Questo non significa che non si possa mai disobbedire a una legge, ma che quando lo si fa, ciò dovrebbe avvenire in nome dello stesso principio che impone di osservarla, ossia il bene comune.

La controversia sui diritti umani

Una cosa, infatti, è disobbedire per interesse personale, come fa per esempio il ricco evasore fiscale, altra cosa è disobbedire per nobili motivi di giustizia.

E ci sono leggi su materie delicate, che coinvolgono i diritti umani, in cui è lecito, e talvolta persino doveroso, appellarsi alla propria coscienza per disattenderle o anche per combatterle

La storia, al riguardo, è piena di esempi di soggetti o di gruppi che, opponendosi a determinate leggi considerate ingiuste, hanno contribuito al progresso civile e morale dell’umanità.

Qui non è sufficiente, però, appellarsi ai “diritti umani”. Leggi che per alcuni sono una violazione dei diritti umani, per altri non lo sono.

Si pensi alle leggi razziali negli Stati Uniti dell’Ottocento, o anche alla legge sull’aborto. In questi casi scoppiano conflitti di interpretazione, che, negli stati costituzionali moderni, possono essere in ultima analisi risolti da organi formalmente preposti come le corti di giustizia.

Il caso del decreto sicurezza

Veniamo ora alla vicenda Orlando-Salvini, limitandoci al casus belli, ossia all’art. 13 del cosiddetto decreto sicurezza. Disponendo che il permesso di soggiorno per motivi umanitari non autorizzi più, com’avveniva in precedenza, l’iscrizione anagrafica dello straniero presso il comune di riferimento, l’art. 13 rende più problematico la sua possibilità di accedere ad alcuni servizi assistenziali erogati dal comune.

“Rende più problematico”, già, perché, contrariamente a quanto si sente dire spesso, il decreto sicurezza non priva brutalmente gli stranieri irregolari di qualunque diritto, visto che i servizi in questione sarebbero comunque garantiti dal domicilio effettivo, senza bisogno della residenza anagrafica.

Certo, è vero che in questo modo, e soprattutto alla scadenza del permesso di soggiorno – che però può essere nuovamente rilasciato lì dove si presentassero particolari esigenze di salute, per esempio, di carattere cronico – stranieri prima regolarmente inseriti nel tessuto sociale si troverebbero, all’improvviso, in una situazione di irregolarità legale.

La funzione reale del decreto sicurezza

Da qui il sospetto che il decreto sicurezza abbia uno scopo più deterrente che normativo, e cioè che sia funzionale non già a regolare, secondo piena giustizia, l’attuale presenza di alcuni migranti nel nostro Paese, ma a scoraggiare ulteriori arrivi.

E poiché difficilmente i migranti scoperti da permesso di soggiorno e iscrizione anagrafica lasceranno il nostro paese, la presenza di stranieri irregolari aumenterà, esasperando il clima di disordine, malcontento e insicurezza, su cui la retorica leghista conta per aumentare sempre di più i propri consensi.

Anche se, in alcune interviste, il sindaco di Palermo Orlando ha definito “disumano” il decreto sicurezza, nella lettera in cui ne ha disposto la parziale “sospensione” si era limitato, più cautamente, a denunciare il “rischio” che la sua applicazione avrebbe potuto rappresentare una violazione di diritti costituzionali.

Motivazioni e metodi dell’opposizione

Quale che sia il giudizio che si voglia dare sul punto, rimane l’impressione che, anche qualora Orlando e i sindaci “disobbedienti” avessero ragione, il modo in cui stanno conducendo la loro battaglia rischia di “giocare” su quella stessa ricerca di consenso rimproverata a Salvini.

Il che, sia chiaro, non toglierebbe nulla alla pertinenza della loro battaglia, a meno che le motivazioni politiche che la sostengono non prendano il sopravvento su alcune elementari regole, sia etiche, sia giuridiche, della vita democratica.

Una di queste regole prevede che i dubbi di costituzionalità di una normativa siano sollevati o da un giudice o da una Regione. E, non a caso, già alcune regioni, come l’Umbria e la Toscana, lo stanno facendo. Ma non per motivi di coscienza morale, si badi, ma per conflitti di competenza fra Stato e regione.

Alcuni punti del decreto sicurezza, in altri termini, potrebbero creare una sovrapposizione fra competenze statali e competenze regionali, imponendo una revisione da parte della Corte costituzionale.

Un problema, questo, più burocratico che etico, ma la cui soluzione per via regionale rimane la via più sicura e diretta per modificare anche quegli aspetti della legge che si ritiene producano violazione di diritti civili e umani.

Un’altra via è quella giudiziale. Che è probabilmente quella a cui ha pensato Orlando con il suo plateale gesto di sospendere, nel comune di Palermo, l’applicazione di alcuni punti del decreto sicurezza.

Poiché, formalmente, quest’azione rappresenta una violazione della legge, si è parlato in questo caso di disobbedienza civile e di obiezione di coscienza.

Due fattispecie sulle quali vale la pena, però, fornire qualche chiarimento, visto il modo spesso confuso in cui sono citate in questi giorni.

Obiezione di coscienza e disobbedienza civile

Mentre con l’obiezione di coscienza, che è prevista da alcune leggi e dunque tutelata legalmente, non si intende cambiare la legge ma solo non essere costretti, personalmente, ad applicarla, la disobbedienza civile è finalizzata a cambiare la legge, non soltanto a non esserne complici.

Già questo spiega come mai l’obiezione di coscienza sia legale, benché in alcuni pochissimi casi, mentre la disobbedienza civile no.

Con l’obiezione di coscienza, infatti, non si viola la legge, ma ci si astiene individualmente dall’applicarla, lasciando che altri, che non hanno le stesse preoccupazioni morali dell’obiettore, possano applicarla.

Si pensi al caso dell’aborto, dove la presenza del medico obiettore non impedisce che il medico non obiettore pratichi l’aborto, e, dunque, che la legge sia salvaguardata.

Con la disobbedienza civile, invece, non si tratta di astenersi dalla legge lasciando che essa rimanga comunque applicata da altri, ma si compie un atto di positiva violazione della legge stessa, al fine di indurre le coscienze a riflettere e lo Stato a rivedere o persino abrogare la legge stessa.

Quando a disobbedire è un pubblico funzionario

Con l’importante e ulteriore differenza che quando il soggetto in questione è un pubblico funzionario, come un sindaco, un ministro o un sovrano, la sua disobbedienza ricade su quella stessa collettività che, in uno stato democratico, quella legge l’ha invece voluta.

E questo è un unicum, che ci impedisce di parlare della violazione della legge da parte di un sindaco come di un caso di obiezione di coscienza o di disobbedienza civile.

Quando infatti a disobbedire attivamente è un pubblico funzionario, le conseguenze dell’azione in questione non ricadono esclusivamente sul soggetto che la compie, come nell’obiezione di coscienza e nella disobbedienza civile, ma sulla collettività che, intesa democraticamente come popolo sovrano che si è espresso tramite il parlamento che ha approvato la legge, ha invece diritto di aspettarsi che quest’ultima sia applicata.

E ha diritto di aspettarselo proprio dal disobbediente in questione.

Antigone e Orlando: rimetterci personalmente

Anche qui la storia ci insegna qualcosa. Discutendo del caso Orlando, alcuni ricordano l’Antigone di Sofocle, che si oppone al tiranno Creonte pur di dare degna sepoltura al fratello.

Ma Antigone non è un pubblico funzionario. Antigone è una cittadina che, in nome dei diritti umani, paga con la morte la propria disobbedienza civile.

Un pubblico funzionario, invece, era Thomas More, cancelliere di Enrico VIII. Anche More, come Antigone, paga con la morte il suo rifiuto di approvare un decreto, da lui ritenuto ingiusto, imposto dal sovrano.

E, in un periodo storico più recente, Baldovino, re del Belgio, si dimise pur di non firmare la legge sull’aborto.

In questi tre casi, divenuti giustamente famosi, il messaggio di contestazione della legge è tanto più forte quanto più colui che lo lancia ci rimette personalmente.

In caso contrario, se l’alternativa è solo imporre la legge o violarla, si può pur sempre pensare che essa non abbia nulla a che vedere con la giustizia, ma sia solo uno strumento di parte che, alternativamente, gioca oggi a favore dell’uno, domani a favore dell’altro.

Gli “strumenti” leciti del pubblico funzionario

In un contesto democratico come il nostro, la “morte” del funzionario pubblico che ritiene ingiusta una legge potrebbe essere, come è accaduto per il re Baldovino, la sua volontaria dimissione dall’incarico, e cioè un gesto che mentre lancia un chiaro messaggio sull’inaccettabilità della legge, si mostra anche rispettoso delle procedure democratiche tramite le quali essa è stata approvata.

Se il problema non è mostrare i muscoli, ma sensibilizzare la società civile e modificare davvero una legge, allora è certo che l’ingiustizia del decreto sicurezza sarebbe apparsa molto più chiaramente in testimonianze del genere che in atti di positivo ostruzionismo.

Il pubblico funzionario chiamato ad applicare una legge che ritiene gravemente incostituzionale, in tal senso, può fare solo due cose: o dimettersi, pur di non diventare complice di una legge che ritiene profondamente ingiusta, o passare a un giudice o alla Regione il compito di rivolgersi alla Consulta.

Rispetto a un privato cittadino, dunque, un pubblico funzionario ha una libertà di disobbedienza moralmente più limitata ma anche, al tempo stesso, giuridicamente più efficace.

Se infatti non può disobbedire a una legge in quanto funzionario, può però più facilmente, anche provocando un caso giudiziario, mobilitare vie istituzionali di ricorso alla Consulta.

La compromessa efficacia della protesta

Delle due l’una allora: un sindaco che ha forti dubbi sull’incostituzionalità di una legge che è chiamato ad applicare, o si dimette per non esserne complice, oppure segue le vie istituzionalmente previste perché venga presentato un ricorso.

E poiché l’ipotesi di una dimissione appare francamente impraticabile né la si può esigere da chi, in coscienza, non ne è persuaso, rimane la via del ricorso da parte di un giudice o della Regione.

Se invece, rimanendo saldamente al centro della scena, un sindaco si decide per un gesto di plateale sospensione amministrativa del decreto sicurezza, una legge democraticamente già approvata – oltre che firmata, nel nostro caso, dal concittadino “costituzionalista” Mattarella – finisce per imporre la sua personale “coscienza” a tutta la comunità, oltre ad attirare su di sé i sospetti di chi vede nell’operazione solo la preparazione di una qualche successiva mossa politica.

Sospetti che, se non dimostrano nulla contro il merito della protesta, ne indeboliscono però l’efficacia.

Oltre a suonare come un gesto di potenziale abuso, analogo a quello di un altro sindaco che, non approvando per esempio la legge sull’aborto, la sospendesse su tutto il territorio cittadino, e ancor prima che siano formalmente sollevati presso la Consulta i dubbi sulla sua legittimità costituzionale.

È facile immaginare, se ciò accadesse, quali potrebbero essere le reazioni.

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