di Alfio Marcello Briguglia
E’ stato assegnato il Nobel per la fisica a coloro che per primi proposero l’esistenza del bosone scalare, impropriamente chiamato di Higgs: Peter Higgs e François Englert. L’esistenza del bosone fu proposta indipendentemente da tre fisici, dei quali uno deceduto (Robert Brout). Ma, in realtà la lista dei fisici che hanno contribuito alla risoluzione del puzzle delle cosiddette “interazioni deboli” è molto più lunga.
L’assegnazione del Nobel e la risonanza mediatica che provoca accende per un attimo nell’opinione pubblica l’interesse per un settore della ricerca tutto sommato impenetrabile per i più.
Non cerco nemmeno di spiegare cosa sia un bosone e cosa vuol dire “scalare”. Ci sono in rete centinaia di tentativi di spiegazione più o meno abbordabili. Chi volesse saperne di più può leggere, ad esempio, il libro di Sean Carroll La particella alla fine dell’universo (Codice, Torino), che si imbarca anche nel tentativo di districare la storia del nome assegnato alla particella. Ogni libro di divulgazione dovrebbe, però, essere letto con una avvertenza: per quanto encomiabili possano essere le divulgazioni, in fisica si capisce veramente di cosa si sta parlando solo quando si hanno in mano le equazioni.
Qui mi interessa sottolineare solo il fatto che la scoperta di tale particella elementare – o forse no!? quali nuovi scenari sta aprendo, quali nuove domande? – corrobora una delle teorie matematiche più astratte, quella dei gruppi di simmetria applicati ai campi quantistici. Oggi una teoria fisica è accettata se le equazioni sono “simmetriche” rispetto a particolari tipi di trasformazioni, dove la parola “simmetrico” e sempre riferita a particolari trasformazioni e indica la proprietà di qualcosa di rimanere invariata quando viene trasformata.
Poiché simmetria e bellezza sono collegate, sembra che ancora una volta tra tutte le vie possibili la natura sembra preferire quelle che hanno valore estetico.
Viene riproposta la relazione tra verità e bellezza che per Galileo era quasi un assioma scientifico, più volte sottolineata nei Dialoghi: una verità non può che essere bella.
In breve perché valgano simmetrie molto forti che rendono identici mediatori della cosiddetta “interazione debole” (indicati in gergo con Z0, W+ e W–) e mediatori della interazione elettromagnetica (fotoni), particelle tra loro molto diverse, occorre ipotizzare un meccanismo di rottura di tale simmetria. Il campo di Higgs e la particella corrispondente furono introdotti, dai fisici menzionati, nel cosiddetto modello standard delle particelle elementari per spiegare il fatto che i fotoni hanno massa zero mentre le altre particelle menzionate hanno una massa un centinaio di volte più grande di quella del più noto protone.
La scoperta del bosone è stata fatta al Large Hadron Collider di Ginevra da due squadre di circa seimila ricercatori, divisi nei due esperimenti che hanno come sigle ATLAS e CMS. Questi ultimi sono rivelatori alti quanto un palazzo di otto piani all’interno del tunnel di 27 chilometri del CERN che corre sotto Francia e Svizzera. L’esperimento ATLAS è coordinato dall’italiana Fabiola Gianotti.
La scoperta della particella e alcune anomalie rispetto a quello che ci si aspettava aprono, naturalmente, nuovi campi di ricerca. In fisica è stato sempre così: ogni nuova conquista moltiplica gli interrogativi.
Trovare simmetrie equivale trovare l’identico nel diverso, significa unificare. Questo è uno dei grandi obiettivi della ricerca di base. Di Galileo, Keplero, Newon, Lagrange, Maxwell, Klein, Einstein, Dirac, Heisenberg … scrive J.Dyson (un altro grande fisico contemporaneo): “ora, è vero in generale che i massimi scienziati in ogni disciplina sono unificatori”.
E mi appare importante ricordare che la filosofia dei filosofi ionici e poi tutto il pitagorismo è una proposta di unificazione dei fenomeni naturali. Il Timeo di Platone comprende una proposta di grande unificazione dal sapore squisitamente geometrico. Platone propone un suo Modello Standard molto sofisticato, avvertendo, però, che è solo un’ipotesi, quasi un gioco intellettuale.
Nella storia del pensiero occidentale sulla “natura delle cose” si sono affrontate due tradizioni: quella atomistica, risalente a Leucippo e Democrito, e quella che vede l’identico che permane nelle trasformazioni non in particelle materiali ma nella struttura formale (Aristotele affronta in altro modo il problema dell’identico e del diverso). Questa tradizione, originaria della scuola di Pitagora, attraverso il Timeo di Platone, è giunta fino a Galileo e Keplero nel Seicento[i].
Oggi, la teoria dei gruppi di trasformazioni sembra mettere assieme queste due tradizioni, dal momento che la struttura algebrica di gruppo gioca il ruolo formale di unificatore delle particelle fondamentali e delle loro interazioni.
Nel Seicento Keplero, un grande purtroppo conosciuto dagli studenti solo per le sue tre leggi, in solitaria (uno solo contro i seimila di ATLAS e CMS; squattrinato contro gli otto miliardi di euro del costo del LHC), tentò di unire tutti i fenomeni osservabili, a partire dalla stessa esigenza di simmetria e sulla base di una proporzione cara ai musicisti: l’accordo di quinta armonica (do-sol), generatore di tutti gli altri accordi e delle proporzioni che reggono il cosmo.
Se qualcuno ha il coraggio di seguire l’Harmonice mundi o l’Epitome astronomiae copernicanae con l’occhio alle vicende della “particella di Dio”, non può non restare stupito dalle analogie e dell’audacia intellettuale di Keplero. Imporre simmetrie alla natura e poi verificarne le conseguenze rappresenta una linea di pensiero che accompagna l’interrogazione sulla natura nel mondo Occidentale, fin dalle origini.
Il concetto di simmetria moderno è molto diverso da quello antico. Ma essi hanno molto in comune: per ambedue “simmetria” è un’operazione, spazio temporale o mentale, che permette di assumere la molteplicità e il cambiamento sotto principi unitari. In ogni operazione di simmetria qualcosa rimane immutato. Non ci aspettiamo di vedere all’opera in Galileo e Keplero i concetti astratti di gruppo di trasformazioni. Sicuramente però si può scorgere in loro un momento di una lunga storia e lo sviluppo di quella pianta che è radicata fortemente in tre convinzioni: la natura è razionale, è semplice, è comprensibile attraverso numero e forma.
Ma di più! Tra tutte le possibilità la natura sembra scegliere quelle che rispondono a criteri di simmetria, perché la natura sceglie la bellezza! Così la simmetria, assunta come ipotesi, diventa uno strumento euristico di conoscenza. Come già detto, tra simmetria e unificazione vi è una stretta relazione. Trovare simmetrie è trovare elementi di unificazione e, viceversa, cercare principi unitari significa imbattersi in simmetrie.
L’efficacia della simmetria pone un problema filosofico irrisolto:
come mai le teorie matematiche sono così efficaci nello studio della natura?
Qualche decennio fa un famoso fisico teorico, Eugene Wigner, ripropose la domanda riaccendendo il dibattito. Non ne aveva la risposta e concludeva il suo articolo (The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences -1960) sottolineando che solo la gratitudine era l’atteggiamento giusto di fronte al mistero, cioè di fronte a ciò che è al di sopra della nostra comprensione.
E’ un peccato che, per quanto se ne faccia sempre un gran parlare, questioni di storia e di filosofia della fisica non riescano a trovare cittadinanza nelle nostre aule scolastiche. Capire che molto del presente è una rimodulazione della tradizione aiuterebbe a comprendere cosa sia l’uomo e la sua ricerca.
Superare il divario tra le due culture sembra una preoccupazione ricorrente. Questo non può avvenire mediante proclami, belle intenzioni o dichiarando che il problema non esiste. Non basta concedere benignamente che anche la scienza, e la fisica, in particolare, è cultura.
C’è da inorridire a vedere l’uso che alcuni famosi “filosofi” italiani fanno di parole come “energia” o “campo”, cui attribuiscono poteri sovrumani, forse ispirandosi più ad Harry Potter che ad un buon manuale di fisica. Leggendo certe considerazioni spiegatutto, cucinate in base a teorie mal comprese e mal digerite, mi sembra di essere di fronte a quella che Jaspers chiamava “superstizione scientifica”, figlia della ignoranza.
E’ famosa la battuta: se non sai chi ha scritto l’Infinito sei un ignorante, se non sai cosa siano i principi della termodinamica sei un letterato!
Qui non si tratta di risentimento corporativo. Oltretutto molti scienziati non fanno nulla per far diventare cultura il loro lavoro. Alcuni hanno l’arroganza di pensare (testimoni le mie orecchie!) che con le loro teorie hanno il controllo dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.
Tempo fa, uno dei pochi esempi di intellettuali italiani che hanno fatto sintesi si chiedeva: come può essere cultura qualcosa che “non coinvolga quel vago ma ineludibile nucleo etico ed emotivo che sta nel cuore di ciascuno di noi”. Come può essere cultura qualcosa che non sia intessuta “della palpitante presenza dei valori e delle emozioni, che peschi nelle profondità della persona e non riguardi solo la freddezza contemplativa dello specialismo filologico e della razionalità computante. Se non c’è coinvolgimento etico, se non c’è responsabilità, rischio, gioia, speranza, non c’è cultura. Ci può essere dottrina, scienza, erudizione, ma non cultura. La cultura è (o dovrebbe essere) legata al «senso» della vita” (O. Longo, intervento in C.P.Snow, Le due culture, Marsilio, Vanezia 2005, p.123-4).
La Chioma di Berenice è un romanzo del matematico e romanziere francese Denis Guedj, di origini algerine. E’ la storia di una spedizione scientifica: la misura del raggio della terra compiuta da Eratostene, terzo bibliotecario della Biblioteca di Alessandria e precettore di Tolomeo IV Filopatore, nel terzo secolo a.C.. Si trattava di risalire il Nilo da Alessandria a Siene (Assuan) per calcolare la lunghezza del tratto di meridiano che passava per le due città. Questo dato, insieme all’inclinazione dei raggi solari ad Alessandria a mezzogiorno, bastavano per calcolare il raggio della terra. In una notte di riposo sulle sponde del Nilo un intraprendente giovanotto, amante di rotoli, assistente di Eratoteste, inizia con lui questo dialogo.
“«Volevo dirvi… » riprese Teo, «vorrei così tanto che la vostra misura rimanesse… come dire? Nel cuore degli uomini, perché quello che resta non è ciò che è stato, ma è il racconto di ciò che è stato. Io non sono un saggio come voi, ma i libri li conosco, e so che cosa ricordano gli uomini: le belle storie.». «Qui non si tratta di storie, Teo, ma di scienza.». «E che cosa cambia?». «Che cosa vuoi? Che inventi metodi falsi, ma pieni di fascino perché Mentep, là sul ponte, possa cantarli… che io metta insieme come capita delle misure eleganti ma inesatte perché le belle alessandrine ne parlino durante i banchetti, voluttuosamente sdraiate sui loro triclini?». Teo sorrise: «No. Alla verità della vostra scienza, aggiungete la dimensione mitica della poesia, e la vostra misura diventerà una storia così bella che si avrà voglia di raccontarla per secoli. La verità da sola non basta ed è meglio così»”. (D. Guedj, La chioma di Berenice, Tea. Chi volesse una ricostruzione meno fantasiosa e più documentata può leggere Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, 2003.)
Il superamento della separazione passa attraverso una diversa formazione dei docenti di discipline scientifiche e una valorizzazione della dimensione storica e filosofica della scienza.
Provocatoriamente: se la dimostrazione di un teorema o la esposizione di una legge fisica non diventano narrazione non possono essere cultura.
Il laboratorio è l’altra via attraverso la quale una legge fisica viene “somatizzata”. L’uso congiunto delle mani e della mente fanno sì che l’astratto diventi concreto personale, emotivamente coinvolgente.
Mi pare invece che si vada in direzione contraria: l’insegnamento a scuola diventa sempre più specificamente disciplinare, le cattedre universitarie di storia della fisica vanno scomparendo.
Qui, come in altri campi, in Italia le buone intenzioni appagano, anche se poi le normative rendono impossibile implementarle nelle nostre aule scolastiche.
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