di Gianni Valente
Sui lavori in corso del prossimo Sinodo sulla famiglia soffiano forte le sirene dei catastrofisti. Coordinate strategie mediatico-ecclesiastiche continuano ad armare la «resistenza preventiva» contro ogni ipotesi di riconsiderare – anche in maniera sorvegliatissima – il divieto ai sacramenti che colpisce i divorziati risposati. Dicono che è in ballo l’ortodossia della fede. Insistono che su queste cose non si discute, se non si vuole minare l’unità della Chiesa.
Ma davvero i potenziali contrasti sui temi controversi del Sinodo rappresentano una minaccia inedita ed esiziale per la comunione ecclesiale? E è giusto sbarrare la strada al confronto appellandosi alla continuità della dottrina e della Tradizione? Vatican Insider lo ha chiesto al sacerdote e teologo Severino Dianich. Intento da decenni a scrutare con passione il mistero della Chiesa nel suo cammino nella storia.
Per alcuni il Sinodo sulla famiglia mette in pericolo l’unità della Chiesa. C’è davvero da preoccuparsi?
«Chi ragiona così sembra ignorare la storia della Chiesa. E non vive la rasserenante esperienza che è Dio che conduce la Chiesa, e non siamo noi con le nostre liti e le nostre battaglie. È una questione di fede, e anche di una buona coscienza storica. Perchè tutta la storia del cristianesimo è anche la storia di un grande confronto, con tensioni e conflitti, intorno al mistero della fede, e alla rivelazione di Dio che è più grande delle nostre parole e formule. Abbiamo in mano cose troppo più grandi di noi, perché su ogni questione sia disponibile una soluzione univoca».
Come può aiutare lo sguardo alla storia?
«Al Concilio di Nicea, nel 325, si è definito che Gesù Cristo Figlio di Dio è “della stessa sostanza del Padre”. Lo ripetiamo ancora oggi nel Credo della liturgia domenicale. Eppure questa formula fu oggetto di infinite discussioni e gravi divaricazioni, non fosse stato altro perché innovativa e, quindi, secondo alcuni, inaccettabile perché non si doveva introdurre nel Credo un’espressione che non c’è nella Bibbia».
E più di recente?
«Le divaricazioni al Concilio Vaticano II furono ben più forti di quelle registrate nel Sinodo sulla famiglia, anche per la profondità e il maggior peso di molte questioni all’ordine del giorno. Allora, per esempio, costò molta fatica giungere a un consenso sulla dichiarazione Nostra Aetate sul dialogo con l’ebraismo e le altre tradizioni religiose. Per non dire delle dispute sulla dichiarazione sulla libertà religiosa. Eppure, in conclusione, anche sui pronunciamenti più controversi si raggiunse spesso il consenso del 90 per cento dei padri conciliari. Alla fine, la Chiesa riscopre, rinnova e rinsalda la sua unità. Ma ciò avviene attraverso un cammino storico, non come rigida e statica deduzione di postulati a priori. Proprio al Vaticano II durante le quattro sessioni lungo i quatto anni del suo svolgimento, le cose si sono per molti versi rovesciate rispetto alle griglie in cui all’inizio si voleva incanalare il dibattito. E questo è potuto accadere proprio perché la discussione è stata reale e feconda. Così la sensibilità conciliare, che all’inizio poteva apparire minoritaria, è pian piano emersa e ha persuaso la stragrande maggioranza dei padri. È questa la dinamica vitale che si realizza quando si discute nella Chiesa».
Ma dicono che la verità non cambia, e i cambiamenti su questo terreno sono un cedimento alla mentalità dominante.
«Ma no! La verità non cambia, ma noi, che la crediamo e la comunichiamo attraverso le nostre forme mentali e le nostre parole, cambiamo. In campo morale, basta pensare che per secoli nella Chiesa era giudicato immorale e peccaminoso il prestito a interesse: oggi qui fra noi chi è che non ha un contro in banca? E possiamo ricordare che nello Stato Pontificio c’era la pena di morte, era permessa la prostituzione… E si potrebbero fare mille altri esempi di come le cose sono cambiate, nella prassi e nelle affermazioni di principio».
Ma si può mettere ai voti la verità? La Chiesa può diventare come un parlamento?
«Dire che la verità non si può mettere ai voti è una affermazione tanto sacrosanta quanto ambigua. Non si mette ai voti la verità. Ma possiamo mettere ai voti i modi diversi che noi abbiamo di riconoscerla, accoglierla e trasmetterla e poi, soprattutto, gli strumenti attraverso i quali intendiamo viverla. E comunque un Sinodo o un Concilio non operano con la stessa procedura di un parlamento. I parlamenti devono formulare e votare delle leggi. I Concili e i Sinodi, prima di decidere delle leggi, devono individuare e dire “il senso della fede” del popolo di Dio oggi vivente, cioè della Chiesa».
In concreto, questo cosa comporta?
«Un Parlamento può permettersi di votare una legge con un solo voto di maggioranza, mentre nella collegialità ecclesiale, al di là dei regolamenti, l’aspirazione è sempre quella di avere una maggioranza vasta. All’ultimo Concilio, Paolo VI tante volte spingeva a prendere in considerazione anche idee che lui personalmente non condivideva. Ma sollecitava ugualmente i padri a tenerle in conto, perché ciò voleva dire raccogliere un consenso più vasto. Perché quello che alla fine emerge deve sempre esprimere la fede della Chiesa, nella quale tutti si devono poter riconoscere. E quanto più la fede è robusta, tanto più possiamo permetterci di discutere e di litigare, sicuri che la grazia di Dio ci manterrà nella fede».
Ma se è così, da dove viene l’esasperazione «catastrofista» fomentata dai media?
«Non è escluso che intorno a certe parole d’ordine su questioni controverse si possano coagulare dei blocchi di interesse complessi. Inoltre, l’attestarsi sul deja vu e sul già detto è sempre più comodo. E poi ci sono ragioni più pertinenti».
A cosa si riferisce?
«Qualcuno, durante le discussione dell’ultimo Sinodo, ha fatto riferimento critico a una certa linea di pensiero “essenzialista”. C’è una tendenza che interpreta la fede e tutti i suoi aspetti come si trattasse di un sistema metafisico. Secondo tale prospettiva, l’unica necessità che urge sembra essere quella di determinare la verità in concetti chiari e distinti, alla Cartesio, in una sorta di metafisica della fede, per poi ragionare su tutto a partire da lì, con una logica ferrea e deduttiva. Solo questo garantirebbe la verità e la “tenuta” del sistema».
Cosa c’è che non funziona?
«Lungo questa via si può realizzare solo il passaggio da un’idea a un’altra, da astrazione ad astrazione, da un principio universale a una norma universale. E tutto questo non mi dice ancora nulla sulla vita reale. La presunzione degli “essenzialisti” sta in questa riduzione del cammino della fede a un procedimento logico. E la verità è come ingabbiata in formule “sicure”, fuori delle quali si è nella contraddizione. Mentre la realtà, come ha ripetuto anche Papa Francesco, è superiore all’idea e nelle sue infinite particolarità non è mai riducibile a un’idea».
E questa riduzione come si riflette sull’affronto del «magma» della vita reale?
«Prendiamo il nodo cruciale del dibattito sinodale, cioè il passaggio fra l’affermazione del principio di indissolubilità del matrimonio e la norma ecclesiastica che impedisce ai divorziati risposati di ricevere l’assoluzione e di fare la comunione. Questo passaggio non è immediato né obbligato. Per questo la Chiesa, come ha fatto la norma, la può anche modificare, senza rinnegare il principio con cui quella norma veniva giustificata. Perchè nella zona intermedia tra il principio e la norma entrano in gioco i dati di fatto. Tra questi, per esempio, c’è il caso molto frequente di situazioni irreversibili, nelle quali il fedele è considerato in stato di peccato perché è risposato dopo aver divorziato, ma commetterebbe un altro peccato se abbandonasse la sua nuova famiglia per ricostruire quella considerata la sola “legittima”. Un caso di fronte al quale la norma sembra inadeguata. Ed è solo il caso più clamoroso fra molti che si potrebbero descrivere».
Quali sono i criteri e i fattori che garantiscono e custodiscono comunque l’unità della Chiesa nella fede condivisa?
«II criterio di fondo è quello indicato dall’ultimo Concilio nella Costituzione Dei Verbum: la Sacra Scrittura letta nella Tradizione della Chiesa, e la Tradizione fondata nella Sacra Scrittura. Questo è il criterio chiave, quello decisivo. La Tradizione, proprio perché non è fissata in un testo scritto, è passata per tante fasi diverse, anche riguardo alla questione del matrimonio sacramentale, che rientra tra i temi del Sinodo. Basta pensare che la forma canonica fu imposta, come necessaria per la validità del matrimonio, solo con il Concilio di Trento».
A cosa fa riferimento?
«Ora le convivenze di fatto non possono essere considerate valido matrimonio, visto che non hanno forma canonica, e quindi nella Chiesa cattolica non possono essere considerate lecite. Ma prima che il Concilio di Trento stabilisse la forma canonica per la celebrazione del matrimonio, come si sposavano i cattolici? La storia delle diversità impone una ricerca, e ci porta a cogliere anche i cambiamenti culturali e i condizionamenti antropologici che segnano il nostro tempo, per valutare ciò che essi comportano per l’annuncio cristiano e la vita di fede. È ciò che sui suoi temi ha fatto il Concilio».
Riguardo alla consultazione sinodale, in vista dell’assemblea, registra un reale coinvolgimento del corpo ecclesiale?
«L’impressione è che in Italia non è stato fatto abbastanza, soprattutto da parte delle diocesi. Se ci fosse stato qualcosa di serio, si sarebbe venuto a sapere, come accaduto per alcune iniziative isolate come quella presa dalla Chiesa di Bolzano. È un peccato».
Cosa ci si potrà aspettare dal Sinodo di ottobre?
«Io mi aspetto che si discuta a tutto campo, senza remore pregiudiziali, e si arrivi alla maturazione di un consenso ampio. Certamente con qualche compromesso, ma senza lasciare le cose del tutto come sono fino a ora. L’atteggiamento pastorale verso le coppie “irregolari” secondo la disciplina della Chiesa era già mutato sotto il papato precedente. Il papato attuale e il Sinodo già celebrato sono andati avanti sulla stessa strada. Io spero che si arrivi a un’indicazione autorevole e, possibilmente, alla formulazione di norme canoniche che consentano di ricostruire quel tessuto di relazioni, ora lacerato, con quei molti fedeli che non possono più ricostruire la loro precedente famiglia, senza commettere grave ingiustizia verso quella in cui ormai si ritrovano, ma che desiderano vivere integralmente la loro vita ecclesiale».
16/03/2015
Fonte: Vatican Insider http://vaticaninsider.lastampa.it/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-39767/
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