All’origine, un dramma umano
La spaventosa strage che, nella scuola elementare di Uvalde, in Texas, ha causato la morte di diciannove bambini fra i sette e dieci anni e due insegnanti, oltre a suscitare un moto di orrore, si presta a diversi ordini di considerazioni. La si può leggere come una tragedia causata dall’emarginazione e dalla solitudine.
Salvador Ramos aveva appena compiuto diciotto anni. La storia di questa terribile vicenda ce lo consegna come un mostro di cui è difficile avere pietà. Che sia stato abbattuto dalle forze dell’ordine, intervenute per bloccarlo, non fa pena a nessuno. Eppure la sua storia è un esempio di come mostri si possa diventare per una serie di circostanze negative che riempiono una persona di odio verso gli altri. Salvador Ramos era stato bullizzato da bambino per la sua balbuzie, deriso da adolescente per la sua povertà e per il suo modo di vestire, escluso dalla scuola per le sue continue assenze.
Un suo compagno ha raccontato che una volta si era presentato con la faccia piena di tagli ed all’inizio aveva detto che era stato un gatto. «Poi mi ha detto la verità, che era stato lui a tagliarsi con un coltello», ha spiegato ancora, dicendo che Ramos affermava che lo faceva per divertimento. In realtà, probabilmente, si odiava.
Quanto alla sua famiglia, del padre non si sa nulla. Aveva abitato con le madre, che aveva problemi di droga, finché non era stato cacciato da casa ed era andato a vivere con la nonna. Ma, a giudicare dal fatto che ha tentato di ucciderla prima di recarsi nella scuola dove ha fatto l’eccidio, neanche con lei il rapporto affettivo aveva funzionato.
Così Salvador Ramos ha vissuto nell’attesa spasmodica di avere l’età minima necessaria per acquistare i due fucili semiautomatici – armi da guerra! – con cui ha sparato, prima alla nonna, poi all’impazzata su dei poveri bambini, per vendicarsi. Di tutti. Forse della vita.
Le stragi ricorrenti e il problema delle armi
Ma la chiave di lettura più frequente della sparatoria di Uvalde, sui giornali, è quella che la colloca nella storia sanguinosa delle altre che l’hanno preceduta. Una lunga scia di sangue che parte da Columbine, nel Colorado, dove il 20 aprile 1999 due studenti della Columbine High School, di 17 e 18 anni, armati fino ai denti, uccisero 12 compagni di classe e un insegnante, prima di suicidarsi nella biblioteca.
Il più sanguinoso in assoluto, in questo arco di tempo, è stato il massacro nella scuola elementare di Sandy Hook, nel Connecticut, nel dicembre 2012, quando un uomo armato uccise 26 persone, di cui 20 bambini. A seguire, quello compiuto nel 2018, da un ex studente della Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida, dove restarono uccisi 17 studenti ed educatori. La strage di Uvalde si colloca, per gravità, tra queste due.
Ma sono solo i picchi di un fenomeno strisciante che si prolunga nel tempo. Secondo un’analisi del «Washington Post», dalla strage di Colombine oltre 200 mila studenti hanno vissuto in prima persona una sparatoria nella loro scuola. Negli ultimi venti anni ne sono avvenute più di duecento, con più di centocinquanta vittime.
Da una ricerca dell’Università del Michigan pubblicata sul New England Journal of Medicine il mese scorso, risulta che, a partire dal 2020, le armi da fuoco sono diventate la principale causa di morte per bambini e adolescenti statunitensi superando gli incidenti automobilistici. Gli Stati Uniti hanno 329 milioni di abitanti e 393 milioni di armi da fuoco: molto più di una per abitante!
Una causa è sicuramente la legislazione permissiva, che ne consente l’acquisto senza alcun controllo sulla idoneità degli acquirenti. «Sono stanco, dobbiamo agire sulle armi. Queste carneficine avvengono soltanto negli Usa», ha detto esasperato il presidente Joe Biden, commentando la tragedia di Uvalde. Il presidente ha comunicato che chiederà al Congresso di agire, e di mettere un freno alla circolazione delle armi. «Dobbiamo contrastare» – ha ribadito – «la lobby delle armi».
Si colloca su questo piano la polemica che la strage ha scatenato contro il governatore del Texas, Greg Abbott, che, facendo leva sul secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce il diritto all’autodifesa, ha recentemente fatto approvare una legge che facilita l’acquisto delle armi da fuoco, incoraggiando espressamente i cittadini ad approfittarne. «Sono imbarazzato», aveva scritto in un tweet. «Il Texas è solo al secondo posto per gli acquisti di nuove armi dietro alla California. Texani, aumentiamo la velocità».
In antitesi con questo atteggiamento l’addolorato commento di papa Francesco al tragico evento di Uvalde: «È tempo di dire basta al traffico indiscriminato delle armi. Impegniamoci tutti perché tragedie così non possano più accadere».
L’ambiguità della libertà
È possibile, però, una terza lettura, che, senza sottovalutare la questione del libero mercato delle armi, parte da essa per andare alle radici culturali del problema. La fornisce un giornalista che conosce bene la società americana: «Limitare per legge la possibilità di armarsi appare la soluzione logica. Il problema è che non succederà mai. Non succederà perché in America il diritto di portare armi è incardinato sul principio inviolabile della libertà individuale, poggia sulle idee dell’autopossesso e dell’autodeterminazione, dalle quali
discende il diritto di proteggersi secondo modalità che non siano sottoposte a un’autorità» (Mattia Ferraresi, Perché gli Stati Uniti non faranno mai una legge contro le armi, su «Il Domani» del 25 maggio 2022)
C’è un modo di intendere la libertà, osserva Ferraresi , che la riduce a quella «puramente negativa, “libertà-da” – dallo Stato, dalla leggi, dagli altri» – e insiste quindi esclusivamente sull’autonomia dell’individuo, piuttosto che sulla sua responsabilità verso gli altri. «La stessa», scrive Ferraresi, «invocata per celebrare conquiste e progressi nell’ambito dei diritti individuali, il diritto di disporre di sé, del proprio corpo, della propria inclinazione, della propria sessualità, della propria sicurezza».
È questa libertà che, nella cultura americana, rende improbabile una legge contro le armi e che comunque, anche ove una simile legge finalmente vedesse la luce, ne neutralizzerebbe gli effetti nella pratica. Il problema, insomma, non è solo giuridico, ma prima di tutto culturale. Converge con questo giudizio ciò che scrive Maria Elisabetta Gramellini, dell’agenzia «Sir», quando, riassumendo il senso di una intervista a John Allen – vaticanista, scrittore statunitense e caporedattore dell’agenzia indipendente “Crux: Taking the Catholic Pulse” – , scrive: «Concentrare il dibattito solo sulla facilità con cui le armi vengono vendute e diffuse nel Paese sarebbe un errore».
È ciò che emerge dalle parole di Allen: «La disponibilità delle armi è un problema a cui serve una risposta politica, ma è solo un sintomo. La disponibilità dà ai giovani il modo di esprimersi nella maniera più violenta, ma le armi non sono la causa del malessere, che necessita invece di una risposta più convincente». Qui, però, si fa un passo avanti nella diagnosi: se la libertà è diventata un valore assoluto in se stessa, è perché non ci sono più fini ulteriori per cui investirla. A monte c’è un vuoto, di cui il malessere è un sintomo.
E questo forse non è vero solo degli Stati Uniti, ma evidenzia la crisi dell’intero Occidente, dove il culto di diritti individuali ha sempre più corrisposto alla crisi delle “grandi narrazioni” religiose e filosofiche che davano senso alla vita e alla libertà stessa. Questa, perciò, invece di essere innanzi tutto “libertà-per” qualcos’altro, si è sempre più identificata con quella “da”. Col risultato di riguardare sempre di più l’individuo e di essere sempre più sganciata dai fini e dalla dimensione comunitaria in cui questi si incarnavano. Significativo il fatto che la società occidentale vede ormai il tramonto della famiglia e il trionfo della figura del single, che ha rapporti non vincolanti con partner che cambiano di volta in volta, o con cui comunque «si sta insieme finché si sta bene insieme», senza un impegno assoluto.
Che ci sia una versione “progressista” di questa visione – negli Stati Uniti come in Europa – , in contrasto e in polemica con quella del governatore repubblicano Abbott e ostile all’uso indiscriminato delle armi, non cambia la sostanza. «Il diritto di disporre di sé, del proprio corpo, della propria inclinazione, della propria sessualità, della propria sicurezza», di cui parlava Ferraresi, è il grande protagonista delle battaglie “di sinistra” (ma ha ancora senso questa parola, applicata una visione individualista?) che negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente hanno ormai identificato la libertà con la legalizzazione dell’aborto senza vincoli di sorta, con il matrimonio tra persone dello stesso sesso e con il libero accesso all’eutanasia.
Ovviamente la comune radice culturale non può fare equiparare questi diverse fattispecie, come dimostra il fatto che i fautori del libero mercato delle armi sono spesso contrari alla libertà dell’aborto o al matrimonio gay e viceversa. Come spesso accade, da un’unica premessa si traggono conseguenze assai diverse e perfino opposte.
A chi ritiene rovinose per la vita umana sia le une che le altre non resta che evidenziarne, al di là delle immediate reazioni emotive, la logica interna – come qui si è cercato di fare – e rimettere in discussione il concetto di libertà che esse implicano.
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